Se Salvini sta al governo rischia di compromettere l’alleanza di centro-destra, per lui indispensabile in vista di una potenziale maggioranza futura, ma se esce dall’esecutivo dimostrerebbe poca credibilità. Ma non si può ogni giorno far ballare il tavolo o Draghi e il resto dell’alleanza lo bollerebbero come sabotatore
Matteo Salvini è nei guai, guai grossi. Anche la Meloni lo è, ma Salvini lo è ancora di più perché – comunque si muova – rischia di cacciarsi in guai ancora peggiori.
Tutto sarebbe diverso se il premier non fosse Draghi, ovvero il nome più credibile e più spendibile che l’Italia ha sul mercato europeo. Draghi ha un gran seguito nell’opinione pubblica che con lui è ancora in piena luna di miele (anche tra gli elettori del centro-destra) pur ormai trascorsi i primi “cento giorni” che segnano il tradizionale inizio del declino per i vari inquilini di passaggio a Palazzo Chigi.
Se Salvini sta al governo rischia di compromettere l’alleanza di centro-destra, per lui indispensabile in vista di una potenziale maggioranza futura, ma se esce dall’esecutivo dimostrerebbe poca credibilità, anche se forse – ovviamente dichiarando il contrario – vorrebbe unirsi alla Meloni proprio per tentare di recuperare voti di protesta.
Al governo Salvini deve quindi restare, ma o si intesta qualche particolare successo o potrà distinguersi alzando la voce per farsi notare, oltre alla necessità di bloccare ogni iniziativa politica che – se approvata – lo renderebbero indigesto al proprio elettorato, soprattutto sui temi caldi (gender, immigrazione). Teoria: non si può ogni giorno far ballare il tavolo o Draghi e il resto dell’alleanza lo bollerebbero come sabotatore.
Ma anche la voce grossa non sembra suscitare più grandi entusiasmi tra i suoi potenziali elettori che siano appena al di fuori dello zoccolo duro leghista, anche perché se Salvini alza troppo la voce allora dà ragione alla Meloni che può farlo meglio di lui non avendo incagli e responsabilità di governo e che quindi può permettersi di sparare nel mucchio senza tanti distinguo.
Difficile per Salvini anche giocare la carta del distinto signore moderato “alla Berlusconi”, altrimenti la base gli si solleverebbe contro.
Un pasticcio, eppure a conti fatti la Lega non ha perso nelle proprie roccaforti locali, ma piuttosto ha esaurito la spinta propulsiva di due anni fa e serve a poco spiegare in TV che tutte le città andate al voto domenica avevano giunte uscenti di sinistra perché – nella percezione collettiva – il centro-destra avrebbe comunque dovuto vincere e invece si è vista come andata (con rischio di un KO completo su Roma e Torino).
Un centro-destra quindi in crisi di disperazione, perché la stessa Giorgia Meloni non è messa meglio: in questi mesi ha giocato la carta dell’opposizione a Draghi ma nonostante i sondaggi non ha catalizzato grandi successi, anzi, è apparsa a volte perfino ingenerosa nei confronti di un premier che è percepito come colui che ha più o meno salvato la nazione. Certo, FdI ha migliorato le sue posizioni rispetto al passato, ma domenica si è dimostrato che i sondaggi sono ipotesi ben diverse dalla realtà, soprattutto quando metà degli elettori (tradizionalmente più di destra che di sinistra) se ne stanno a casa se non vengono adeguatamente motivati.
Ma come motivarli se la manfrina delle candidature è andata avanti per mesi fino alla individuazione di poveri Cirenei più o meno già impallinati in partenza, e comunque sempre calati dall’alto?
Nella triade resterebbe Berlusconi che però sembra capace di ripetere all’infinito solo il refrain dell’importanza dei liberal-moderati ed esaurisce così la partita per Forza Italia che ha sì vinto in Calabria, ma in giro per l’Italia è spesso scesa a percentuali imbarazzanti.
E allora, che si fa? Dalle sconfitte si impara (o si dovrebbe farlo) e la prima cosa che a destra mi sembra invece non si voglia capire è che urlare soltanto non basta e che le alternative proposte – a livello di candidature locali – devono essere credibili o non “tirano”.
Ma se le elezioni amministrative si giocano sui nomi, se non cambia il sistema di scelta dei candidati il centro-destra sarà sempre perdente. Forse che a Milano la partita sarebbe stata identica se tutti avessero puntato da subito su Albertini pungolandolo ad accettare? Forse che a Roma una candidatura di apertura a Calenda non avrebbe sparigliato le carte visto che comunque amministrare la capitale è un’annunciata epidemia di disastri? Forse che a Torino il povero Damilano non ha dovuto attendere mesi e mesi per avere un sospirato “sì” a candidarsi, perdendo però tempo prezioso? Sono errori che si pagano, soprattutto quando non ci sono quadri di partito sufficientemente preparati e che quindi un candidato a sindaco credibile va scelto spesso fuori dal recinto di casa per avere chances di vittoria.
Ma – soprattutto – al centro-destra manca una piattaforma di idee programmatiche chiare e condivise, indispensabili se nel 2023 vorrà davvero vincere le elezioni. Una vittoria oggi meno scontata di ieri, anche perché il Pd nel frattempo ha forse passato il guado e sicuramente ha raccolto buona parte dei voti pentastellati delusi, quelli che peraltro in passato spesso avevano votato proprio per i democratici e che quindi sono semplicemente tornati a casa.