Ineguaglianza sociale, espansione di liquidità internazionale, programmi di spesa di incerta realizzazione, e molti altri fattori, compromettono la crescita economica, con una profonda diversità tra i Paesi
Ancora una volta la pandemia sta attraversando una fase inedita. I Paesi sviluppati sembrano essere in una zona di miglioramento progressivo a causa dell’ampia somministrazione di vaccini, ma sono timorosi di nuove ondate e di nuove varietà del virus. Gli altri Paesi (con la possibile eccezione della Cina) sono invece sotto stress, con la pandemia che avanza insieme con l’incubo di una insostenibile prolungata emergenza sanitaria.
L’economia mondiale riflette questo dualismo, con un rimbalzo delle attività economiche nei paesi più ricchi al di là delle aspettative, e con una caduta dei redditi e dei consumi nei paesi più poveri, che sembra anch’essa più drammatica del previsto.
Il Fondo Monetario Internazionale prevede un incremento reale del Pil mondiale del 5,9% per il 2021 e del 4,9% nel 2022, ma il dato, che potrebbe suggerire un moderato ottimismo, nonostante una piccola revisione verso il basso per il 2021, nasconde differenze drammatiche attuali e potenziali tra paesi ricchi e poveri.
La ripresa economica nelle economie avanzate è stata finora vigorosa perché al successo dei vaccini si sono aggiunte due circostanze favorevoli: un incremento della liquidità internazionale senza precedenti e la possibilità di recuperare rapidamente un livello di capacità produttiva vicino a quello disponibile prima dei lockdown e delle misure restrittive adottate nelle fasi precedenti della pandemia. Il balzo produttivo a cui ci sembra di assistere nei paesi sviluppati è quindi il frutto di circostanze eccezionali, e presto si esaurirà se non sarà alimentato da cause più persistenti. D’altra parte, il prolungamento dell’emergenza e i preoccupanti sviluppi della pandemia al di fuori del cerchio magico delle economie avanzate minacciano di compromettere ulteriori positivi sviluppi della ripresa.
Ma i pericoli all’orizzonte non si limitano solo alla pur insostenibile ineguaglianza sociale scatenata dalla diffusione globale del virus. Le stesse caratteristiche della ripresa in atto e i mezzi utilizzati per metterla in moto costituiscono una minaccia e rivelano forse cause più profonde di una sua insostenibile leggerezza.
La simultanea espansione di liquidità internazionale e di programmi di spesa di incerta realizzazione configurano uno scenario mai sperimentato finora, in cui a una fase di moderazione mondiale dei prezzi, il cui inizio si può far risalire almeno al 2008, è seguita una fase di bolle finanziarie alimentate da una lievitazione dei prezzi degli asset.
I prezzi delle materie prime si sono dapprima contratti, con la prospettiva incerta della transizione energetica che ha contribuito a deprimere gli investimenti, e i prezzi dei beni strumentali. I prezzi dei beni di consumo sono rimasti stabili sia nella situazione prima della pandemia, sia dopo, a causa della caduta della domanda e del sostegno fornito dai governi alle imprese e all’occupazione nei periodi dei lockdown.
La moderazione dei prezzi al consumo è però in parte il frutto di una repressione di tendenze inflazionistiche alimentate dalla espansione monetaria, ma frenate dall’intervento pubblico e dalla incertezza creata dalla pandemia.
Allo stesso tempo, la mancanza di investimenti in settori cruciali quali l’energia e la logistica, in un contesto di incertezza tecnologica e industriale, possono creare le condizioni per una tempesta perfetta in cui si sommano domanda insoddisfatta e costi crescenti, rallentamento della crescita e inflazione.
Più ancora della parte più buia della pandemia, la fase corrente di ripresa ineguale ha messo a nudo alcuni nodi strutturali, che costituiscono i veri problemi da risolvere per rilanciare lo sviluppo e la crescita. Anzitutto, appare evidente come la digitalizzazione e tutta la panoplia di strumenti immateriali ad essa associati possa creare la pericolosa illusione che si possa andare avanti facendo a meno della economia materiale. Questa illusione sembra vagheggiare un paradiso digitale in cui una sorta di smart working generalizzato permette di produrre valore dedicandosi a uno smanettamento collettivo di personal computer, senza muoversi di casa se non per motivi ricreativi. Che non sia così facile si capisce guardando alla carenza di scorte di beni materiali, e in primo luogo di energia, che la ripresa economica dei paesi avanzati sta causando nel resto del mondo, e anche al suo stesso interno.
Questa carenza, già emersa durante i picchi della pandemia, è l’effetto di catene del valore troppo lunghe e fragili, di materie prime concentrate in pochi paesi e di sistemi logistici obsoleti. Essa è anche il risultato della incertezza tecnologica e industriale causata dalla transizione energetica e dalle politiche di mitigazione del cambiamento climatico, apparentemente sicure e ambiziose negli obiettivi, ma deboli e incerte negli strumenti. Questo vale per la cosiddetta digitalizzazione, chiaramente una chimera, se non attuata attraverso una trasformazione industriale capace di incorporare le tecnologie digitali nelle strutture fisiche della produzione, riprogettando anche le catene di valore e i sistemi logistici attuali. Ma vale anche per la transizione energetica, i cui modi e tempi rimangono tutti da scoprire, e condizionati da obiettivi che sembrano progressivamente meno realistici alla luce dei risultati ottenuti finora, come dei nuovi scenari delineati dalla pandemia ancora in corso. Il sentiero per raggiungere questi obiettivi, cioè l’effettivo profilo della transizione è ancora estremamente incerto, e il mix di fonti energetiche necessario assolutamente indeterminato. La mancanza di gas naturale che minaccia di essere un collo di bottiglia micidiale per la ripresa è figlia dell’indeterminatezza della transizione e dei segnali da parte dei governi. Essa è anche una premonizione delle difficoltà di progressi effettivi nella sostituzione di energia fossile senza una strada che consenta di graduarne i costi e di massimizzarne i benefici. L’assenza di una strategia di transizione si manifesta nella mancanza di politiche industriali credibili, come l’esclusione del gas naturale e del nucleare dal pacchetto ambientale della UE “Fit for 55”. L’applicazione del principio “do no harm” che la Commissione Europea pretende di seguire è probabilmente erronea, perché manca sia di ragioni convincenti a priori, sia di una metodologia di valutazione delle conseguenze delle diverse scelte.
Inoltre, il gas naturale potrebbe essere l’investimento di elezione per diversificare il portafoglio energetico di paesi produttori e consumatori. La sua sostituzione al carbone e agi altri combustibili fossili permetterebbe di abbassare rapidamente le emissioni, stimolando allo stesso tempo gli investimenti in condutture che potrebbero servire in futuro anche per l’idrogeno.