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Odio online, una sentenza cambia le sorti dei social (e dei politici)

Il 2 settembre 2021 potrebbe rappresentare il D-day per le piattaforme social, Facebook in primis, uno spartiacque profondo per chi condivide odio online

Il 2 settembre 2021, come canta Marco Mengoni, rimane ancora un giorno qualunque, così come Beaucaire è ancora una piacevole ma anonima cittadina francese dell’Occitania. Eppure, l’uno e l’altra potrebbero rappresentare il D-day per le piattaforme social, Facebook in primis, uno spartiacque profondo per l’ecosistema social.

Ma, andiamo con ordine.

Con tutti i leader affannati gironzolare la Penisola, da una città all’altra per sostenere liste, coalizioni e candidati pronti a sfidarsi per il voto amministrativo di inizio ottobre, è passata sotto silenzio la sentenza della quinta sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo, Sanchez contro Francia, che per la prima volta definisce, anche per i giudici nazionali, un perimetro interpretativo per valutare e sanzionare i soggetti che favoriscono o consentono la diffusione dei messaggi di odio e discriminatori, pur se non ne sono gli autori diretti.

In questo ultimo inciso è racchiusa la portata innovativa della giurisprudenza comunitaria che se applicata uniformemente potrebbe essere la chiave di volta per una radicale e progressiva bonifica dell’infosfera social dagli haters di professione e dagli untori seriali di fake news, che puntano a inquinare il dibattito politico così come, a ridosso degli appuntamenti elettorali, a condizionare le scelte degli elettori in un senso o nell’altro.

Alla Corte aveva fatto ricorso nel 2015 Julien Sanchez, all’epoca dei fatti sindaco di Beaucaire e candidato per il Front National alle elezioni legislative del 2011, contro la condanna a pagare 3.000 euro inflittagli dal tribunale penale di Nîmes per il quale era colpevole di non aver prontamente rimosso una serie di commenti postati da alcuni utenti sulla sua fanpage Facebook, che di fatto discriminavano la comunità musulmana.

La Corte europea non solo ha confermato l’interpretazione della giustizia francese, per la quale quei commenti costituivano atti di incitamento all’odio o alla violenza contro un gruppo di persone, ma ha posto sullo stesso piano di responsabilità la mancata vigilanza da parte del gestore della pagina, in quanto questi erano ancora visibili sei settimane dopo la pubblicazione, con quella dell’autore materiale dei contenuti e dei commenti.

Di più, ha precisato che lo status di figura politica e pubblica impone a chi utilizza una pagina social, quindi mette a disposizione degli internauti la bacheca pubblica accessibile a tutti, una quota maggiore di vigilanza, che non decade invocando semplicemente il diritto alla libertà d’espressione delle persone.

Per la prima volta, quindi, il politico o chi riveste ruoli istituzionali che non vigila e non rimuove tempestivamente dalla propria bacheca quei commenti postati dagli utenti che offendono e discriminano in base alla religione o all’etnia, rischia di risponderne penalmente in quanto dalla sentenza Sanchez in poi è equiparato all’autore dei contenuti postati, sulla base dell’articolo 93-3 della legge del 29 luglio 1982, in qualità di committente o gestore di un sito, in questo caso di un canale social, di comunicazione pubblica online.

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è fondamentale anche per una seconda motivazione, non legata immediatamente alla fattispecie transalpina, ma che da alcuni anni sta animando il dibattito pubblico sulla trasparenza dell’algoritmo delle piattaforme social e di Facebook in particolare, quale big player che raccoglie nel mondo attualmente 2 miliardi e 850 milioni di utenti mensilmente attivi.

Perché se Menlo Park continua a mantenere un atteggiamento di opacità verso i messaggi d’odio e i contenuti che disinformano come di recente ha denunciato Frances Haugen, ex product manager di Facebook, in audizione al Senato statunitense, la sentenza europea ribalta i termini della questione: a rispondere della mancata vigilanza e di conseguenza dell’imbarbarimento delle discussioni pubbliche non è solo la piattaforma, ma dal 2 settembre anche il politico.

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