Sbiaditi nella memoria collettiva i cori del “Tutto andrà bene” che esorcizzava la paura del primo lockdown e le conferenze in diretta dei comitati di salute nazionale, è tempo di una riflessione sul ripensamento delle pratiche di leadership per il nostro Paese, con lo sguardo aperto ed attento al mondo: una proposta di formazione (della Pontificia Università Gregoriana) raccontata da padre Stefano Del Bove, gesuita, docente della Facoltà di Scienze Sociali, direttore del programma di Diploma e Cappellano dell’Università
Come assicurare al Paese e alle nuove generazioni una ripartenza autentica? La domanda è ricorrente e spesso priva di una risposta che non abbia il sapore del miraggio o che non si configuri come una falsa uscita dalla fatica del tempo presente. La sfida è epocale: si invoca una rinascita che deve essere elaborata mentre siamo ancora segnati dagli effetti della pandemia e dall’ombra di morte che essa ha portato.
Prendo parola su questo tema a partire dall’ambiente dove vivo e opero con diverse responsabilità e riposando su una tradizione antica: l’università. Se in questi mesi e con il nuovo anno accademico, la richiesta di formazione superiore sembra crescere, mi chiedo: come dare ad essa, e più in generale all’impresa educativa, i tratti di una risposta non aleatoria alla pandemia?
Emerge in molti studenti uno specifico desiderio di orientamento di vita che assume la forma di una richiesta di studio e ricerca, quasi di iniziazione, alla teoria e pratica della leadership. Nel programma che dirigo questo percorso è strategicamente combinato con una introduzione alla lettura delle istituzioni e delle loro dinamiche. L’obiettivo è fornire gli strumenti per una presenza di stile pubblica, affidabile, responsabile, virtuosa radicata nei migliori valori della civiltà occidentale.
Sono in molte infatti, le università che offrono programmi in materia, con risorse più grandi umane, amministrative, economiche. Forse ciò che oggi può fare la differenza è la dedizione alle persone che implica un esercizio di cura, una fenomenologia del dono e dell’ascolto, un’etica dell’ospitalità.
Questo è in grado di rendere “pieno di futuro” ciò che si insegna e ciò che si aiuta ad apprendere, aggiornare, perfezionare.
Al di là delle variazioni pubblicitarie e propagandistiche, mi sembra sia in atto una strana omologazione, un appiattimento nell’offerta di corsi e programmi formativi che non valorizza la diversità, proprio mentre si sostiene di promuoverla. Chiedo sempre ai miei studenti di intraprendere un lungo, faticoso, gratificante cammino nei percorsi della inclusione autentica a partire dal saggio di Michel de Certeau, Mai senza l’altro!
Mi sono anche reso conto che non basta l’internazionalità (i miei studenti provengono da 120 Paesi), ma va promossa una forma più elevata che la include e custodisce: la forma di universalità che l’educazione nelle cosiddette istituzioni pontificie romane viene da sempre coltivata.
Qui si innesta anche uno dei temi di promozione del nostro Paese: a questo pubblico insegniamo in italiano (per poi permettere di fare l’esame e presentare lavori scritti in inglese, francese, spagnolo e spesso anche in tedesco e portoghese) che rimane la lingua – koinè ecclesiastica – di una Chiesa colta, abituata alla mediazione, a ragionare sulla possibilità, che escogita alternative, che forma persone adulte che non cedono alle sempre più insidiose forme di fanatismo, ecumeniche e attente a fenomeni sempre più emergenti e critici come quello del ruolo socio-politico del dialogo interreligioso.
In altre parole ed in sintesi, data la provenienza degli studenti e della natura identitaria della Gregoriana, davanti anche a recenti fallimenti della politica internazionale, ed alle tensioni proprie della società civile, la mia domanda sul ruolo della formazione in una istituzione ecclesiale non debba dare sempre di più il suo contributo alla pace ed alla giustizia sociale, a trasmettere quella solidità culturale del Cristianesimo e quell’invito a magnanimità e santità di vita che sono antidoto alla tentazione della violenza e del fanatismo, che piuttosto ispirano cooperazione e fraternità.
Quest’anno la grafica che ho scelto per una pubblicità che sia un invito a pensare è ispirata ad uno dei celebri tagli di Lucio Fontana: suggerisce uno dei temi che alla scuola del già ricordato gesuita, teologo, antropologo, storico e semiologo francese Michel de Certeau studieremo con attenzione, quello della “frattura instauratrice” di senso. Un auspicio e forse anche una strategia per uscire dalle ferite e dalle strettoie del tempo presente e per rispondere alla domanda essenziale a ogni percorso di formazione: non solo e non tanto cosa ho appreso, ma cosa sono diventato e che cosa è accaduto!
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