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Dieci anni dopo il ”pivot to Asia” di Obama. Alti e bassi secondo l’Aei

Il think tank americano ha fatto il punto sulla svolta del 2011, dopo Afghanistan e Iraq. C’è del buono, del brutto e del cattivo. E anche una lezione da imparare, ma in fretta

Parlamento di Canberra, 17 novembre 2011. Il presidente statunitense Barack Obama prende la parola. È un discorso destinato a fare la storia della politica estera americana. “Dopo un decennio in cui abbiamo combattuto due guerre che ci sono costate care, in sangue e risorse, gli Stati Uniti stanno rivolgendo la loro attenzione al vasto potenziale della regione Asia-Pacifico”.

Poche settimane prima il segretario di Stato Hillary Clinton presentava sulle pagine di Foreign Policy una dottrina dal titolo piuttosto discusso, “America’s Pacific Century”, spiegando che il futuro della politica sarà deciso in Asia, non in Afghanistan o in Iraq, e che gli Stati Uniti saranno proprio al centro dell’azione.

Un decennio, due amministrazioni e cinque Congressi americani dopo, Zack Cooper, senior fellow dell’American Enterprise Institute, hanno tracciato un bilancio assieme ad Adam P. Liff, professore associato dell’Università dell’Indiana e nonresident senior fellow della Brookings Institution. 

L’ha fatto partendo da un assunto. Eccolo: “Dal 2011, la regione [Asia-Pacifico] è diventata più ricca, popolosa, militarmente potente, economicamente integrata, impegnata a livello globale e influente. L’ascesa della Cina è solo una parte della storia. Economicamente, l’Asia ospita più della metà della popolazione mondiale e del prodotto interno lordo, quattro delle cinque maggiori economie del mondo e cinque dei primi dieci partner commerciali dell’America. Dal punto di vista della sicurezza, comprende cinque alleati con cui gli Stati Uniti hanno firmato un trattato, un numero ancora maggiore di partner chiave per la sicurezza e numerosi punti critici militari. Entro il 2030, l’Asia contribuirà alla maggior parte della crescita globale e a oltre il 90% dei nuovi membri della classe media globale. Per queste ragioni, le amministrazioni Obama, Donald Trump e Joe Biden hanno tutte sottolineato l’importanza cruciale dell’Asia (o dell’Indo-Pacifico) per il futuro dell’America, e a ragione”.

Ci sono il buono, il brutto e il cattivo di questo decennio, sostiene Cooper. Il buono è la rinnovata attenzione verso l’Indo-Pacifico. Il cattivo è che la retorica americana ha superato l’azione. Il brutto è l’assenza di una strategia commerciale ed economica regionale.

“Per rimettere l’America in carreggiata in Asia, l’amministrazione Biden e il Congresso devono dare priorità a tre urgenti correzioni di rotta: ricentrare la strategia statunitense sulla regione nel suo complesso, piuttosto che sulla Cina; abbracciare un’agenda economica regionale positiva; e aumentare significativamente le risorse diplomatiche e militari dedicate alla regione”, scrivono gli esperti. Serve, cioè, “un’agenda positiva, affermativa e multilaterale in Asia” in politica estera. E ”uno sforzo a livello governativo per trovare e dare seguito a una strategia globale per plasmare il futuro della regione” sul fronte interno.

Ma occhio “non c’è tempo da sprecare”, avvertono al fondo del documento.

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