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Supply Chain. Perché la catena spezzata va ricostruita “just in case”

Di Lucio Miranda e Corrado Clini

Il punto di Lucio Miranda (ExportUSA) e del professor Corrado Clini sulle difficoltà del commercio internazionale: bisogna mitigare l’approccio “just in time” con un maggiore ricorso al “just in case”. Ma dalla pandemia può nascere una concorrenza tra economie globali basata su principi, sostenibilità e innovazione

Il reshoring come risposta alla crisi delle catene globali (di Lucio Miranda, ExportUSA)

La pandemia ha mostrato le debolezze di una supply chain troppo estesa: blocco e imbottigliamento dei porti, incapacità di gestire i picchi di traffico alla ripresa, accumulo dei container in un solo lato della linea di approvvigionamento, aumento dei costi di spedizione con ricadute sui prezzi al consumatore.  Attualmente, nella logistica, la formula del “just in time (JIT)” ha soppiantato quella classica del “just in case”.  Tuttavia, davanti a un’emergenza sanitaria globale, e per alcuni settori critici quali microchip, semiconduttori, e dispositivi medici, sarebbe fondamentale incorporare il rischio di “disruption” nelle catene di approvvigionamento e ripensare la logica del JIT stretto, a favore di più realistiche forme di gestione della logistica secondo i principi del classico “just in case”.

E se prima le produzioni all’estero erano economicamente convenienti, quanto vale, adesso, esternalizzare? Il fenomeno dell’offshoring va corretto, a tutela di una reperibilità più immediata ed efficace delle merci: prevenire situazioni critiche, puntando sul reshoring e quindi sulla produzione domestica, quantomeno di prodotti indispensabili per la sicurezza nazionale.

Il virus ha alterato le tempistiche, allungato le distanze e cambiato le prospettive.  Rileggendo i principali passaggi degli ultimi 20 mesi risulterà evidente che politica economica e sicurezza nazionale non possono rischiare di essere colpiti una seconda volta. Il Covid ha messo in ginocchio una nazione come gli Stati Uniti – che spende centinaia di miliardi di dollari l’anno in sistemi d’arma di ultima generazione – per carenza di mascherine facciali del costo unitario di frazioni di centesimo.

Così la carenza di microchip per l’industria automobilistica ha sottolineato la precarietà di interi sistemi industriali. Limiti e rischi delle catene di approvvigionamento hanno portato dubbi sulla gestione della logistica.

L’offshoring ha contribuito con altri fattori a un vero e proprio sventramento di interi settori produttivi in nome del puro risparmio.

 

Le economie globali verso una competizione positiva (del prof. Corrado Clini)

Lo shock della pandemia sulla supply chain globale mette in evidenza non solo i rischi sulla sicurezza degli approvvigionamenti in tutta la catena, dalle attività industriali ai consumatori finali, ma dà anche rilievo a cambiamenti che erano già in corso e che sono stati accelerati almeno in 3 aree principali:

  • Il dumping ambientale e sociale che ha guidato la delocalizzazione delle produzioni nelle “manifatture dell’economia globale” a basso costo in Asia, ma anche in Africa e Centro Sud America, è da tempo al centro delle critiche verso imprese multinazionali che nonostante l’impegno ad assicurare la sostenibilità dell’intera filiera hanno ampiamente goduto di organizzazioni del lavoro e pratiche contrarie alla sicurezza dei lavoratori e alla protezione dell’ambiente. Ed è interessante rilevare che l’introduzione nei paesi “manifatturieri” di regole adeguate agli standard internazionali ha determinato l’aumento del costo del lavoro e spesso ulteriori delocalizzazioni verso economie più “convenienti” per bassi livelli di sostenibilità sociale ed ambientale.

A questo proposito è significativo il caso della Cina, che ha adottato regole progressivamente più severe. E sarà interessante analizzare i possibili effetti, anche sulla supply chain, del Comprehensive Agreement on Investment sottoscritto da Unione Europea e Cina ed attualmente in fase di esame da parte del Parlamento Europeo.

È auspicabile che la crisi determinata da Covid possa anche provocare un ripensamento dei criteri “obbligatori” da rispettare sull’intera filiera, dall’estrazione delle materie prime al prodotto finale.

A questo proposito ricordo la lettera che Larry Fink, Ceo di Black Rock, ha inviato nel gennaio 2020 a tutte le imprese partecipate dal fondo. Mentre “A More Sustainable Supply Chain”, una ricerca pubblicata da Harvard Business Review nell’aprile 2020, offre informazioni e indicazioni preziose.

  • La carenza di prodotti ha accelerato i processi di riuso, ovvero l’”economia circolare” emerge non solo e non tanto come pratica ambientalmente virtuosa ma soprattutto per la possibilità di superare i colli di bottiglia in molti settori per la crisi della supply chain. Speriamo che questo driver si consolidi come background strutturale dei cicli di produzione e consumo.
  • La crisi sta anche accelerando l’innovazione e lo sviluppo per la produzione “da remoto”, in particolare attraverso l’impiego della tecnologia 3D anche per prodotti strategici e tecnologicamente complessi.

3D, o additive manufacturing (AM) consente la produzione delle componenti e dei beni in prossimità del loro utilizzo, e dunque riduce i rischi di dipendenza e i costi anche solo per i trasporti a lunga distanza.

3D Systems Corporation, una compagnia in South Carolina, sta mettendo a punto processi avanzati in AM per la produzione di semiconduttori, con l’obiettivo di ridurre i tempi e semplificare l’intero processo di approvvigionamento.

Si può dunque dire che la crisi ha la possibilità di favorire una nuova fase di competizione tra le economie in un contesto positivo per la sostenibilità e l’innovazione.

C’è tuttavia il rischio che emerga una visione “autarchica” e conflittuale nelle singole economie, con l’illusione che sostenibilità e innovazione possano essere promosse e gestite “in casa”. I dati, sia quelli sullo stato dell’ambiente globale sia quelli sull’intensa integrazione internazionale tra centri di ricerca e imprese per l’innovazione e la decarbonizzazione dell’economia, suggeriscono che la competizione non si deve tradurre in conflitto.

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