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Il tormentone annuale delle pensioni. Ma la strada è solo una

Invece di baloccarsi con una galassia di Quote e di sigle, si pensi a un sistema per i nostri figli e nipoti e si inseriscano eventuali toppe in una visione complessiva. Con una pensione con requisiti essenzialmente di età e finanziata dalla fiscalità, oltre che considerando i contributi versati, ma anche l’opzione complementare/integrativa basata su fondi privati. Il commento di Giuseppe Pennisi

Non c’è pace per i pensionandi si potrebbe dire mutuando dal titolo “Non c’è pace tra gli ulivi” di Giuseppe De Santis, film che nel lontano 1950 lanciò Raf Vallone e Lucia Bosé. Si pensava di avere risolto i problemi previdenziali con la «riforma Dini» che nel 1995 aveva sostituito il sistema retributivo per il computo delle spettanze con il sistema contribuivo – un metodo che scrisse allora l’economista Sandro Gronchi incorporava un “pilota” automatico” che avrebbe corretto squilibri senza richiedere altre riforme. Un riassetto analogo del sistema previdenziale veniva allora legiferato in Svezia. Non mi sembra che nel nordico Paese dove ora regna Carlo XVI Gustavo ci sia ogni anno un tormentone pensionistico analogo a quello che si verifica in Italia quando si deve approntare la legge finanziaria per il prossimo esercizio.

A mio avviso, le determinanti sono due a) in Svezia, legiferato il cambiamento nel sistema di calcolo, la transizione tra un metodo e l’altro è stata fatta nell’arco di tre anni ed accompagnata da generosi incentivi alla previdenza complementare (ossia ai fondi pensioni) mentre in Italia si è legiferata, su richiesta dei sindacati, una transizione di 18 anni (creando storture vere e percepite e, con esse, invidia sociale) ed in tema di previdenza complementare non si è tenuta la barra dritta ma si è stati altalenanti (specialmente in materia tributaria); b) ogni due-tre anni si è fatta una “mini-riforma” con palliativi per rimediare ai problemi creati dalla lunga transizione, palliativi che hanno aggravato l’incertezza ed attizzato fuochi particolaristici.

Quindi, come ha scritto Giuliano Cazzola, «la logica risponde sempre ai medesimi criteri: il “ristoro”, l’incentivo, lo stanziamento mirato, il rinnovo, la proroga e il rinvio. Se qualcuno pretende una visione o un programma coordinato è pregato di ripassare».

Oggi ci si arrovella con la scadenza di “Quota 100” a fine anno. La proposta presentata oralmente dal ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco in Consiglio dei ministri, ma non formalizzata in un documento, ipotizzerebbe il passaggio a Quota 102 nel 2022, per poi salire a Quota 104 l’anno successivo. Se attuata, la proposta sarebbe un tampone ma potrebbe diventare una manna per gli avvocati perché pioverebbero le vertenze: come si fa a mandare in pensione chi compie nel 2022 64 anni di età e 38 di contributi e di impedirglielo nel 2023 nell’eventualità che raggiunga uno dei due requisiti qualche mese dopo Capodanno?

Domanda analoga per Quota 104. Ė da augurarsi che, se questa è la proposta, essa venga presentata dal ministero dell’Economia e delle Finanze con una relazione tecnica che esamini questi ed altri problemi.

Inoltre, nel Documento programmatico di bilancio 2022 (Dpb 2021) appena giunto in Parlamento non ci sono indicazioni chiare. Né si è fatto alcun cenno alle altre misure in scadenza (in attesa di eventuale proroga con o senza rimodulazione): parliamo non soltanto dell’Ape Sociale, che potrebbe godere di un ampliamento della platea per quanto concerne i beneficiari che svolgono lavori gravosi, ma anche e soprattutto dell’Opzione Donna, che da alcuni anni viene rinnovata offrendo un’opportunità di uscita anticipata per le lavoratrici, seppur con una penalizzazione sul calcolo dell’assegno.

L’assenza di alcun riferimento nel Dpb ha accesso molti timori in questo senso: lo sforzo di Governo si potrebbe concentrare soltanto sulla formula sostitutiva della Quota 100, che tuttavia non ha dato i risultati prefissati al momento della sua istituzione, quando invece altre formule come Ape Sociale estesa a nuove categorie di gravosi e Opzione Donna potrebbero realmente consentire il rinnovo della forza lavoro e tutelare fasce della popolazione più svantaggiate.

A questo punto, sarebbe meglio terminare di mettere cerotti e toppe alla previdenza, o almeno limitarsi a mettere solo quelli indispensabili nel breve periodo per evitare profondi dissidi sociali (non le proteste di qualche gruppuscolo) e guardare alle prospettive a lungo termine ponendo l’accento sulla determinanti che hanno cambiato il contesto socio-economico rispetto al 1995.

Queste determinanti sono essenzialmente due: a) prospettive demografiche molto differenti di quelli che avevano ventisei anni; b) prospettive di crescita economica anche esse meno incoraggianti di allora perché anche ove le riforme riporteranno l’Italia a crescere occorre mettere in conto i vent’anni di stagnazione (con tre recessioni). Il sistema contributivo – vale la pena ricordarlo – aggancia l’andamento delle pensioni a quello dell’economia reale e, dato che è «a ripartizione», a quello dell’occupazione e del monte salari, se la popolazione non cresce e l’economia ristagna, non crescono neanche l’occupazione ed il monte salari con cui pagare le pensioni dei nostri figli e dei nostri nipoti.

Invece di baloccarsi con una galassia di Quote e di sigle, si pensi ad un sistema per i nostri figli e nipoti e si inseriscano eventuali cerotti o toppe in una visione complessiva. Essa può essere simile a quella svizzera o americana: uno sgabello a tre gambe di cui a) una universalistica basata su requisiti essenzialmente di età e finanziata in gran misura dalla fiscalità generale (razionalizzando la frastagliata spesa sociale ed eliminando voci discutibili come il cosìddetto «reddito di cittadinanza»); b) una contributiva ossia agganciata ai contributi versati; e c) una terza complementare/ integrativa basata su fondi pensione privati.



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