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La trappola della povertà e il malessere in Italia

Nel nostro Paese da un quarto di secolo non solo si cresce ed aumentano i divari ma si è bloccato quello che gli economisti chiamano “l’ascensore sociale” (ossia il modo per ascendere a fasce sociali a benessere maggiore) e si è aggravata “la trappola della povertà”, a volte proprio con misure che avevano l’intenzione di sradicarla. Giuseppe Pennisi analizza gli studi effettuati su questi temi per offrire una interpretazione della matrice economica dei disordini verificatisi negli ultimi giorni

I disordini che hanno caratterizzato Roma e Milano (nonché molte altre città nei giorni scorsi) hanno una matrice economica, accanto ad una matrice politica (c’è chi trova qualsiasi occasione pur di pescar nel torbido) ed una matrice sociologica (la rabbia di chi si sente escluso e la mancanza di una forza politica che le dia voce e la incanali tanto più che il Movimento Cinque Stelle – M5S – ha scelto la grisaglia e la cravatta togliendosi questa funzione che originariamente aveva).

In Italia da un quarto di secolo non solo si cresce ed aumentano i divari ma si è bloccato quello che gli economisti chiamano “l’ascensore sociale” (ossia il modo per ascendere a fasce sociali a benessere maggiore) e si è aggravata “la trappola della povertà”, a volte proprio con misure che avevano l’intenzione di sradicarla.

Andiamo con ordine. In termini tecnici, e verificabili statisticamente, per ascensore sociale si intende quante possibilità hanno i figli di genitori poco istruiti e magari con un reddito basso di scalare la piramide sociale e ricoprire incarichi più importanti e meglio remunerati. Se queste possibilità sono scarse allora l’ascensore sociale è bloccato: i figli di genitori benestanti resteranno tendenzialmente benestanti ma i figli di famiglie più disagiate non hanno la possibilità di crescere né nella società né in campo lavorativo.

Lo studio più approfondito in materia è stato condotto dalla Banca d’Italia e riguarda il 1993-2016, ossia copre le crisi finanziarie del 2008-2009 e del 2011-13 ma non la recessione dovuta al Covid. Proprio per questo, è particolarmente utile: analizza un processo iniziato alla fine del secolo scorso e che è esploso ai tempi del Covid.

La Banca d’Italia ha costruito un indice di correlazione che è tanto più alto quanto più il legame tra la storia studentesca dei genitori e quella dei figli è forte. L’indice va da -1 a +1. Per realizzare lo studio sono state effettuate circa 90mila interviste tra 1993 e 2016.

Come si vede l’istruzione dei nati fino al 1924 era legatissima a quella dei genitori. Anche solo considerando i soli anni del padre l’indice era di 0,458, e diventava 0,468 considerando quelli della madre. Man mano questo legame è diminuito, e non di poco, a 0,414 (considerando entrambi i genitori) per la classe 1925-30, 0,386 per quella 1931-35, 0,306 per i nati tra il 1936 e il 1940, 0,260, e così via. Significa, in pratica, che i nati fino al 1924 hanno studiato gli stessi anni dei padri mentre più si va avanti con gli anni di nascita si vede che i figli hanno studiato di più rispetto ai padri

Il calo maggiore, infatti, è proprio quello verificatosi tra coloro che sono nati nella prima metà degli anni ’30 e quelli nella seconda metà. Gli anni in cui questi ultimi sono entrati nell’età di frequenza della scuola superiore e dell’università erano gli anni ’50 e del boom economico, quando si è verificata una crescita dell’istruzione media come mai prima.

La diminuzione della correlazione tra gli anni di studio di genitori e figli continua poi, ma a un ritmo sempre inferiore, fino alle classi 1966-1970, quelle in cui diventa minimo, 0,133. Si può dire che in questi anni l’ascensore sociale in Italia ha posto le premesse per funzionare bene perché anche se i genitori hanno studiato pochi anni, questo non ha influito (o, meglio, ha influito molto poco) sugli anni di istruzione dei figli. Poi accade una inversione di tendenza. Inversione di tendenza che ha un’influenza diretta sull’ascensore sociale. Secondo un altro studio, questa volte dell’Ocse, diffuso nel 2018, in Italia potrebbero essere necessarie addirittura 5 generazioni perché un bambino o una bambina nati in una famiglia a basso reddito per raggiungere un reddito medio in linea con quello dei loro coetanei che vivono nei Paesi più industrializzati del mondo.

C’è stato un aumento dell’importanza delle condizioni di origine in termini di reddito e ricchezza. La correlazione tra i redditi dei figli e dei genitori era di 0,188 nel 1993, ed è poi aumentata tra alti e bassi fino allo 0,240 del 2016. La correlazione tra la ricchezza è cresciuta ancora di più, da 0,102 nel 1993 a 0,168 nel 2016. In questo caso era diminuita fino al 2006, fino a 0,055, per poi aumentare in modo piuttosto veloce, fino allo 0,154 del 2010. Probabilmente anche per la crisi dell’edilizia che ha congelato gli acquisti di case, favorendo la proprietà di immobili di chi già ne aveva in famiglia. Dopo un nuovo calo nel 2012 c’è stata un’altra impennata fino al record del 2016. Anche in questo caso la conclusione è la stessa: negli ultimi anni il reddito e la ricchezza dei padri ha cominciato ad avere sempre più importanza sul reddito e la ricchezza dei figli.

Andiamo ora alla “trappola della povertà”, un ciclo che mantiene le persone in uno stato di povertà anche quando tentano di risollevarsi. C’è una varietà di teorie economiche per affrontare le “trappole della povertà” anche quelle create dalla politica sociale che mirerebbe, invece, a fare uscire i poveri da tali trappole.

Molti Paesi usano strumenti per testare per determinare l’idoneità degli strumenti a raggiungere gli obiettivi di facilitare l’uscita dalle trappole. L’assistenza pubblica è spesso strutturata per consentire alle persone di sopravvivere a livello marginale, in parte perché non tiene il passo con l’inflazione. In molti casi, una persona in condizioni di povertà si qualificherà per i servizi sociali, ma se quella persona tenta di trovare lavoro, le prestazioni vengono ridotte proporzionalmente in base al reddito, lasciando la persona nella stessa posizione. Gli individui che hanno abbastanza lavoro per sostenersi totalmente possono ritrovarsi a pagare un’aliquota fiscale marginale elevata, riportandoli di nuovo nel punto di partenza.

Le persone catturate in “trappole della povertà” tendono a rinunciare ad uscirne dopo un certo punto. Dopo aver tentato di sfuggire alla trappola della povertà e di trovarsi nella stessa posizione, tornano al livello in cui possono ricevere assistenza pubblica e dalle organizzazioni umanitarie e così via.

In Italia esiste un vasto sistema di assistenza sociale. Su quello esistente, è stato sovrapposto il “reddito di cittadinanza” proprio per debellare la povertà. Mancano studi analitici completi ma notizie di stampa danno l’impressione che abbia aggravato “la trappola” perché molti beneficiari della misura (specialmente del Sud e delle Isole) rinunciano al lavoro (nel Centro Nord) – il lavoro è la strada maestra per uscire dalla povertà e prendere “l’ascensore sociale” – per restare nella zona territoriale di origine, dove spesso hanno un’abitazione, ed integrare il sussidio con lavoretti “al nero”.


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