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I criteri Esg non sono più un orpello, ma al centro delle strategie finanziarie

Gli obiettivi di sviluppo sostenibile sono sempre più centrali, sia per gli investitori che per gli asset manager. E gli istituti di credito si stanno muovendo nella direzione verde, anche in previsione di una regolamentazione che renda davvero possibile monitorare il progresso ambientale e sociale

Alla Cop26 si è registrato l’interesse sempre più ampio del mondo del credito verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile a livello ambientale e sociale, o Esg (environmental and sustainable growth). Quelli che un tempo erano criteri aggiuntivi, per quanto graditi, di un portfolio stanno acquisendo una massa sempre più critica agli occhi degli investitori. Nel contempo gli istituti di credito si concentrano sempre più su come bilanciare gli obiettivi Esg e la performance degli investimenti dei loro clienti.

Una risposta è stata fornita da Alberto Nagel, amministratore delegato del gruppo Mediobanca, che pochi giorni fa ha aderito alla Net Zero Banking Alliance – impegnandosi a dimezzare le emissioni entro il 2030 per giungere alla neutralità carbonica nel 2050, in linea con il piano europeo. “Le tematiche Esg non devono essere percepite come un obbligo, bensì come un’opportunità in grado di generare valore per tutti i nostri stakeholders”, ha detto.

L’ad ha parlato in apertura dell’evento “Beyond Esg & Sustainability – A new strategic direction” organizzato da Mediobanca. Non si tratta più di includere obiettivi Esg, ha rimarcato, quanto piuttosto renderli un elemento centrale della strategia di un istituto. Per Nagel, “il contributo delle istituzioni finanziarie a un mondo più sostenibile va in realtà oltre la filantropia e l’adozione di comportamenti di consumo responsabile: la vera sfida, ma anche opportunità, è integrare i criteri Esg nei modelli di business”.

L’ad ha spiegato che l’intero Gruppo Mediobanca ha adottato una politica Esg “molto rigorosa” e basata su linee guida strutturate per diffondere i criteri Esg a ogni livello del suo operato, “dai finanziamenti, agli investimenti di fondi propri, fino all’attività di consulenza ai clienti”. E la strategia pagherà, secondo Nagel, perché a valle gli investitori la richiedono, consci del fatto che tali scelte si traducono anche in un aumento della performance e della resilienza dei loro portfolio sul lungo periodo: una situazione win-win.

Questa attitudine, ha commentato Federica Rampinini dell’iniziativa di investitori in seno alle Nazioni Unite nota come Principle for Responsible Investments (Unpri), è largamente condivisa. “Stiamo osservando un trend: le considerazioni Esg non sono parallele o isolate, ma integrate”. Gli investitori, ha detto, iniziano a considerarle “un moltiplicatore” e stanno adottando “una prospettiva olistica”. Anche grazie all’attività regolatoria, specie in Unione europea. Ma pure nei mercati leader c’è ancora tanto lavoro da fare.

Tuttavia, con l’aumentare dei criteri e delle legislazioni imperniate su obiettivi Esg aumenta anche il rischio di greenwashing, l’ecologismo di facciata, dove il principale problema è ancora la mancanza di dati e trasparenza aziendale, senza i quali non si può realisticamente misurare l’impatto Esg. “Le società capiscono che dovranno dimostrare che stanno facendo quanto possono, in termini di quanto possono controllare”, ha commentato Sabahat Salahuddin, direttrice dell’Investment Stewardship della più grande società di investimento al mondo, Blackrock.

Per Alberto Chiandetti, Portfolio Manager di Fidelity, la strada in Ue è già tracciata e porta alla creazione di una tassonomia, una serie di regole che possa aiutare l’analisi della sostenibilità richiedendo rapporti obbligatori e più chiarezza su quanto e cosa debbano rivelare le aziende, a seconda dei settori. L’industria se lo aspetta: “oggi stiamo assistendo ai primi passi con la tassonomia europea per gli investimenti ambientalmente sostenibili”, ha detto il manager, “ma sappiamo che arriverà anche per gli asset sociali” – la “s” di Esg.

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