Skip to main content

Alla destra serve un po’ di sinistra. La versione di Fabio Granata

“Alla destra attuale servirebbe una ‘sinistra’ interna che inchiodi e corregga la linea sulle politiche sociali, sulla politica estera, sulle scelte culturali e sulle battaglie antimafia”. Parla Fabio Granata, già deputato e membro della Direzione nazionale del PdL, vicino alle posizioni di Gianfranco Fini

Fabio Granata è stato un protagonista della destra italiana, un’area che ha seguito nelle sue trasformazioni e contraddizioni, e alla quale oggi si interfaccia da spettatore attento slegato dalle sigle. Dirigente politico siciliano dai tempi del Movimento Sociale, è oggi assessore nella giunta comunale della sua Siracusa, città amministrata dal centrosinistra – un profilo coerente per un “rautiano”, la corrente missina che predicava lo “sfondamento a sinistra”. Attento osservatore della politica nazionale, affrontiamo con Fabio Granata un argomento già trattato su queste colonne, dalle scelte politiche ai limiti culturali di una destra che oggi ambisce alla vocazione maggioritaria, passando per “lobby nere” e nostalgismi all’apparente rifiuto di contraddire i propri leader (l’ultima volta risale a dieci anni fa, con l’esperienza di Futuro e Libertà che Granata contribuirà a fondare).

Dopo la debacle del centrodestra alle scorse elezioni si è aperto il dibattito sulla classe dirigente della coalizione (specialmente per quanto riguarda FdI), quali sono stati secondo lei i principali errori commessi dai partiti?

Non conosco le dinamiche che hanno portato alla scelta dei candidati e non ho la presunzione di criticare un contesto che non mi è più familiare. Da osservatore esterno, le candidature, soprattutto a Roma e Milano, non erano credibili. Servivano probabilmente profili politici ben diversi, dotati di carisma e consapevolezza politica. Sono convinto che a Roma Giorgia Meloni avrebbe potuto spiazzare tutti candidandosi: avrebbe certamente vinto e, da sindaco di una delle più importanti capitali al mondo, avrebbe accresciuto enormemente la sua forza e la sua credibilità in Italia e all’estero. A Milano bisognava forse individuare un candidato ben diverso da un primario assillato dai costi della campagna elettorale, schierare una donna o un uomo che incarnasse una idea di città innovativa, aperta e in linea con la visione di una metropoli europea. Capitale del Made in Italy, della qualità e del “bello”. I nomi non mancavano ma farli adesso mi sembra inutile.

Roma e Milano non sono stati casi isolati, perché secondo lei la destra fatica nel radicamento territoriale?

Perché il radicamento territoriale si costruisce non sulla propaganda ma sulla politica. Si dovrebbe tornare a occuparsi di cittadinanza attiva, di politiche culturali e ambientali, di solidarietà e di lavoro. In sintesi nelle città si è patrioti e si ha credibilità se si difende il suolo dalle speculazioni, se si rigenerano le periferie, se si difende il paesaggio e il patrimonio, se si è credibili nelle battaglie di legalità e non solo limitarsi a urlare contro la sinistra. Tornare a credere nelle idee che diventano azione e non negli slogan e nelle invettive contro questo o quello…

Ricorrere ai civici è stata una scusa per ovviare alla mancanza di rappresentanti politici? A destra non si riesce ad adottare il concetto della scuola di partito?

Sarei presuntuoso a giudicare dall’esterno le realtà degli attuali partiti. In Fratelli d’Italia, di cui conosco meglio la vita interna, la militanza intesa come diffusione di idee, libri e battaglie continua a percepirsi, ma bisognerebbe avere una strategia che guarda anche alle città e ai territori e non solo ai sondaggi. La Lega invece, almeno al sud, avrebbe avuto la possibilità di puntare su volti nuovi e giovani, donne e uomini magari affascinati più dalle battaglie sull’identità plurale dell’Italia che dagli slogan contro gli immigrati e non invece rifugiarsi in surreali “riciclaggi” privi di qualsiasi credibilità. 

Oltre alla classe dirigente, la destra arranca sul piano culturale e a questa condizione si risponde sempre con “l’egemonia culturale di sinistra”, non è forse una scusante? Come e quanto effettivamente si investe sul piano culturale?

Alla fine degli anni Ottanta, in quel bellissimo magma di suggestioni e idee che fu la Nuova Destra italiana, emerse una strategia metapolitica definita “gramscismo di destra”. Fu un tentativo, in parte riuscito, di vivere finalmente l’epoca che eravamo chiamati a vivere, senza sguardi all’indietro, trasmettendo una visione del mondo non ancorata agli schemi del Novecento ma innovativa e rivoluzionaria. Tutto passava dai “linguaggi” del cinema, del teatro, della musica, della letteratura e dalla rottura di egemonie altrui per affermarne di nuove. Oggi il mondo della cultura mi sembra abbandonato dalla politica in generale e non solo dalla destra. Ovviamente questo non può essere motivo di soddisfazione.

Quello del “gramscismo di destra” è un cavallo di battaglia che è durato per generazioni, ma cos’è rimasto di questo concetto e che risultati effettivi ha portato negli anni? La metapolitica non ha avuto l’effetto opposto di isolare il pensiero di destra dal dibattito comune?

Difficile rispondere o fare un bilancio. Comunque molti personaggi di quell’arcipelago di idee e suggestioni hanno oggi una consolidata autorevolezza e una piena legittimazione in ambito accademico, letterario, giornalistico, culturale. Potrebbero dare un contributo nella elaborazione di linee politiche che non si fermino alla propaganda, ma non sempre quel contributo viene richiesto e tenuto in considerazione. Anzi…

Tornando all’attualità, l’inchiesta lobby nera ha semplicemente rivelato il segreto di Pulcinella. Se leggiamo i pochi giornali di destra che escono oggi ritroviamo spesso e volentieri articoli e proclami fascistoidi (sulla cui qualità si potrebbe ulteriormente dibattere). Perché la cultura di destra è stata appaltata agli extraparlamentari? Perché nonostante Fiuggi non si ha avuto quella cesura culturale tra destra e neofascisti?

Nessuno può negare, senza cadere nel ridicolo, che il mondo della destra politica in Italia abbia quelle radici lì ma credo che solo in malafede si possano continuare a chiedere continue dichiarazioni di “antifascismo”, peraltro sempre in prossimità di scadenze elettorali. Il “mio fascismo” da giovane è stato Guglielmo Marconi, Bottai, Pirandello, Brasillach, Drieu, Junger, Pound e quindi questa equazione che va per la maggiore tra “fascismo e cattiveria” tout court, mi è sempre apparsa una solenne fesseria. Ma tutti coloro i quali hanno creduto e credono in una “certa Idea dell’Italia” identificandosi con la sua intera storia, compresa quella tragica e controversa del Novecento, devono adesso essere capaci di guardare avanti, ritrovandosi in un progetto politico nuovo e nel quale nuovamente appassionarsi, declinando le proprie visioni e differenze in una nuova sintesi che riesca ad andare oltre schemi oramai logori e che finalmente superi e si lasci alle spalle la infinita diaspora della “destra politica” italiana.

Un’altra caratteristica di questo mondo intellettuale è la quasi totale mancanza di dissenso, di critica al leader del momento, perché secondo lei si cade in questa situazione? Perché, a differenza della sinistra, la cultura di destra non può prescindere o essere indipendente dal partito?

Posso rispondere con una battuta?

Prego

Alla destra attuale servirebbe una “sinistra” interna che inchiodi e corregga la linea sulle politiche sociali, sulla politica estera, sulle scelte culturali e sulle battaglie antimafia: non si può avere Paolo Borsellino come punto di riferimento e poi difendere Mori e Contrada o candidare Berlusconi alla Presidenza della Repubblica. E comunque per nostra fortuna è presente una cultura “di destra” in Italia, ben al di là di qualsiasi rapporto con i partiti esistenti: da Franco Cardini a Pietrangelo Buttafuoco, da Umberto Croppi a Monica Centanni, da Francesco Giubilei a Marcello Veneziani e ai tanti operatori culturali, assessori, scrittori, esperti di politiche culturali, animatori di eventi, rassegne e festival senza tessera di partito o appartenenze circoscritte come Fulvia Toscano o il sottoscritto. Chi più chi meno, apolide ma “figlio” di quella storia lì.

Su queste basi nasceva FLI, lei che ha fatto parte di quell’esperimento, cosa pensa sia rimasto dopo dieci anni?

Non credo che il FLI sia stato un semplice esperimento ma il riemergere improvviso di un’anima laica, legalitaria, sociale e libertaria che è sempre stata presente nella nostra comunità e che trovò nella rottura con il berlusconismo e con il leghismo primordiale il suo collante. La macchina del fango contro Gianfranco Fini demolì quel progetto ma io credo che abbia comunque avuto una importanza che va ben al di là del disastroso risultato elettorale che ottenne.

Come vede oggi FdI?

Credo che bisogna riconoscere a Giorgia Meloni una grande caparbietà e abilità nel costruire una forza politica radicata e organizzata, una forza dalla quale l’attuale centrodestra non può prescindere. E poi decidere di stare all’opposizione del governo Draghi mi sembra sia stata una scelta coraggiosa.

Avendo attraversato tutte le evoluzioni dell’area nel corso degli anni, oggi si sente ancora di destra?

Vorrei concludere con una nota ironica: sono consapevole che il mio destino resterà quello di esser considerato “di sinistra” dalla destra attuale e “fascista” tout court dalla sinistra (ride, ndr). Ma per me seguire una visione del mondo e delle società tenendo conto dell’epoca che si vive rappresenta forse l’insegnamento più grande di quella “ideologia italiana” che ha permeato il Novecento e nella quale l’Italia potrebbe ancora “trovare” una risorsa di senso in questa palude omologata al neoliberismo globale che viviamo e nella sua attuale grigia declinazione legata alla emergenza sanitaria. Forse resterò politicamente apolide, ma mi viene in soccorso il pensiero del mio amato Berto Ricci: “Viene, dopo le finte battaglie, il giorno in cui c’è da fare sul serio e si ristabiliscono di colpo le gerarchie naturali: avanti gli ultimi, i dimenticati, i malvisti, i derisi. Essi ebbero la fortuna di non fare carriera, anzi di non volerla fare, di non smarrire le proprie virtù nel frastuono degli elogi mentiti e dei battimano convenzionali. Essi ebbero la fortuna di assaporare amarezze sane, ire sane, conoscere lunghi silenzi, sacrifici ostinati e senza lacrime, solitudini di pietra, amicizie non sottoposte all’utile e non imperniate sull’intrigo”.

×

Iscriviti alla newsletter