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La Difesa europea scalda i motori. Parla Marrone (Iai)

Conversazione con Alessandro Marrone sulle novità relative alla Difesa europea, dalla bozza dello Strategic Compass per un’attuazione più operativa rispetto al passato, alla complementarietà con il Concetto strategico Nato, fino alla linea bilanciata dell’Italia e al fondo Edf che innesca un nuovo circolo virtuoso. E sul fronte industriale…

Passi incoraggianti, ma ci sarà ancora molto da lavorare. È così che si riassumono le ultime novità della Difesa europea secondo Alessandro Marrone, a capo del programma Difesa dell’Istituto affari internazionali (Iai), che Formiche.net ha raggiunto per commentare le decisioni prese negli scorsi giorni dai ministri dell’Ue, riuniti a Bruxelles per dare slancio al tema. Con la prima bozza di Strategic Compass sono arrivati anche 14 nuovi progetti della Pesco, mentre procede il dialogo con la Nato per fare in modo che le ambizioni continentali procedano “in sinergia” con l’Alleanza Atlantica.

Quale è il suo giudizio sulle novità giunte dal Consiglio Esteri e Difesa?

Lo Strategic Compass ha prodotto una bozza buona, con impegni concreti e scadenze temporali nei prossimi anni. Emerge che bisogna agire ed essere in grado di agire. Bisogna realizzare il potenziale inespresso per le attività in corso in Pesco e Edf, ma soprattutto occorre andare oltre rispetto alle operazioni (quindi alla “Military planning and conduct capability”), alle esercitazioni, agli scenari operativi, alla Eu rapid deployment capacity che ha avuto molto risalto mediatico. Il senso è passare dalla visione strategica generale della Eu Global Strategy del 2016 ad un’attuazione più operativa. È sicuramente un passo in avanti. Altro passo in avanti rilevante è che mi pare che il processo sia guidato dagli Stati membri. Perché le istituzioni europee, fra cui Eda e Commissione europea, negli ultimi cinque anni hanno fatto passi importanti, in particolare in merito all’Edf. Adesso però la palla è nel campo degli Stati.

Come pensa che il nuovo Strategic Compass potrà integrarsi con il Concetto Strategico della Nato? Soprattutto alla luce dell’obiettivo dichiarato di ridurre la dipendenza dai mezzi militari Usa.

Secondo me si è trovato un punto di equilibrio tra una visione francese che punta ad un livello di autonomia strategica molto elevato, e quella dei Paesi più atlantisti dell’Europa orientale (ma non solo) che riconoscono che la difesa collettiva dell’Europa è, e sarà, garantita dalla Nato. Quindi, l’autonomia strategica si concretizza, da un lato, maggiormente nelle capacità di agire nella gestione delle crisi e stabilizzazione nel Mediterraneo allargato o in altri scenari; dall’altro, nel contribuire alla resilienza e difesa collettiva dell’Europa tramite uno sviluppo integrato delle capacità europee, e quindi un pilastro europeo all’interno della Nato. Se questo è l’equilibrio prevalente, non vedo problemi con il Concetto Strategico Nato. Anche perché lo Strategic Compass ha un respiro più operativo, con scadenze nei prossimi anni, e un orizzonte secondo me realistico con l’aspirazione per l’Ue di diventare un global player ma con un focus primariamente nelle regioni intorno all’Europa.

E il Concetto Strategico della Nato?

È un documento meno operativo e che si concentra più sui fondamentali, su quali siano le priorità dell’Alleanza, quali i core tasks, quale sia la valutazione condivisa della minaccia. Dunque, secondo me non c’è una contraddizione tra i due documenti. Anche perché nel prossimo Concetto Strategico penso che troveranno grande spazio il doppio binario (deterrenza e dialogo) con la Russia, nonché la competizione A tutto campo con la Cina (in cui sono compresi i domini spaziale e cIbernetico). A ciò si aggiunge un discorso di partnership della Nato con Paesi “like minded” in chiave occidentale in senso culturale e politico, e non solo geografico. Viste queste priorità nell’agenda Nato è ancora maggiore la complementarità con l’Ue che, se attuerà lo Strategic Compass, sarà maggiormente in grado di gestire autonomamente le crisi e le instabilità in Africa e Medio Oriente dove l’Alleanza è più improbabile che agisca, dal momento che gli Usa hanno reso chiaro che non intendono impegnarsi più militarmente come prima in questi due scenari. Quindi, o si tratterà di missioni Nato a trazione europea (come la Nato training mission in Iraq) o saranno missioni Ue, oppure missioni di Paesi europei in coalizione (come il caso di Takuba) che hanno un sostegno da parte dell’Ue. Bisogna anche essere flessibili, lasciando fuori la rigidità Nato-Ue, perché la realtà in Africa e Medio Oriente spesso ha la dimensione di missioni di coalizione ad hoc.

Ci spieghi meglio.

Per la Nato si può e si dovrebbe configurare un ruolo di supporto all’Ue nella stabilizzazione delle regioni a sud dell’Europa, prendendo atto, anche da parte italiana, che gli altri Paesi Nato non intendono portare l’Alleanza Atlantica ad avere una leadership nel fianco sud. Ciò che si può ottenere, in ottica di partenariato Nato-Ue, è da un lato un’Unione che agisce maggiormente a sud e una Nato che supporta maggiormente a sud, e dall’altro una Nato che assicura difesa collettiva dalla Russia a est, con l’Ue che contribuisce tramite lo sviluppo di capacità militari dei Paesi europei, tramite la resilienza e tramite la “military mobility”, tramite il lavoro sulla guerra ibrida e sul cyber.

Cosa ne pensa della forza di intervento rapida di cinquemila unità? Sarà efficace e sufficiente?

In questi casi bisogna guardare la foresta e non l’albero. L’Ue era partita 22 anni fa con l’obiettivo di schierare una forza di circa 60mila soldati nelle operazioni di stabilizzazione su un modello Bosnia-Balcani. Poi si è passati ai battlegroup, quindi su una forza di azione rapida di qualche migliaio di uomini. Si è dunque ridotto il livello di ambizione per fare qualcosa di più dispiegabile, più fattibile e più pragmatico. In 14 anni i battlegroup non sono mai stati utilizzati, né in Libano dove si è svolta l’operazione Unifil 2 in ambito Onu, né in Kosovo dove c’è ancora la Kfor Nato, né altrove. La capacità di dispiegamento rapido, dunque la “Eu Rapid Deployment Capacity”, è positiva se gli Stati membri la usano. Se la sua attuazione rimane sulla carta come i battlegroupS, sarà una tigre di carta. Se verrà usata domani nel Sahel, o verrà usata per sostituire la Kfor in Kosovo allora sarà diverso, perché potrebbe essere sensato che l’Ue si faccia le ossa nel gestire un’operazione di stabilizzazione in un teatro tutto sommato permissivo come il Kosovo, circondato da Stati membri Ue e con un percorso politico e istituzionale di integrazione dei Balcani occidentali in ambito Ue. Allora sarà un passo importante.

C’è un però?

Sì. Però va valutata rispetto al passato in cui già si sono presi impegni simili, si sono istituiti battlegroupS e non sono stati usati. Va valutata la prospettiva cioè di missioni a guida Ue o a guida di Stati europei con un supporto Ue, ma in cui in ogni caso gli europei devono prendersi responsabilità del loro vicinato, perché gli Stati Uniti saranno altrove. In questo caso, non è che e i Paesi europei fossero incapaci di dispiegare cinquemila soldati, visto che sono arrivati a dispiegarne 35mila in Afghanistan nel quadro Nato. Non è che mancassero di capacità di intervento rapido. Piuttosto, è mancata finora la volontà politica di usarle come missione Ue. Quindi ben venga che ci sia in stand by una forza di cinquemila soldati che si esercitano regolarmente insieme, che abbia degli scenari operativi già pronti che quindi sia effettivamente disponibile, ma come negli anni precedenti, negli anni futuri il punto di svolta sarà la decisione di usarla. Perché non c’erano veri ostacoli operativi all’uso del battlegroup finora. Poi certamente si può migliorare il finanziamento economico da parte della European peace facility per questa “entry force”, e quindi non far ricadere l’onere economico sugli Stati che già si assumono l’onere e il rischio di dispiegare le truppe. Dunque, è sicuramente uno sviluppo benvenuto, come il passaggio dal meccanismo di Atena all’European peace facility, e deve assolutamente proseguire. Questo incentivo economico però non cambia la realtà: finora la decisione di non usarli è stata tutta politica.

Quale sarà il peso e il ruolo dell’Italia, dal punto di vista politico e di capacità, con il nuovo Strategic Compass?

Credo che l’Italia abbia mantenuto una linea che di fatto è quella giusta e bilanciata alla quale si sono avvicinati altri Paesi che partivano da posizioni opposte. Nel senso, la linea italiana di una maggiore autonomia strategica europea per operare laddove Stati Uniti e Nato hanno fatto capire chiaramente di non voler operare, non mette in dubbio la coesione transatlantica, e al tempo stesso è una chiamata alla responsabilità degli europei. Quindi su questa linea l’Italia può proporsi per assumere ruoli di comando per le missioni europee, nella gestione e nel comando della nuova capacità di dispiegamento rapida, e può proporsi politicamente appunto come un Paese sia europeista sia atlantista, e quindi non incontrare né le diffidenze di Washington o dei Paesi dell’est europeo, e al tempo stesso trovando una posizione comune con Francia e Germania. È un’importante finestra di opportunità per l’Italia, e ricordiamo che Italia e Francia sono i Paesi più attivi in Africa; hanno interesse condiviso alla mobilizzazione di risorse e forze europee per la stabilizzazione dei vari scenari di crisi nel continente africano in chiave di lotta al terrorismo, di contrasto al traffico dei migranti, di sicurezza energetica, in una regione molto importante dal punto di vista economico, sociale e demografico per il futuro dell’Europa. L’Italia ha ottime potenzialità e secondo me l’attivismo nei quadri Nato, europeo e nel Mediterraneo del ministro Guerini negli ultimi due governi ha rafforzato la posizione italiana in questo senso.

Tre le novità della bozza di Strategic Compass c’è la “Joint cyber Unit”. Come si svilupperà la dimensione cyber?

Come Iai abbiamo fatto una ricerca sulla difesa cibernetica nei Paesi Nato, inclusi Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e Spagna, e una ricerca appositamente sulla difesa cibernetica in Italia. Emerge chiaramente che il cyber viene al momento trattato in una prospettiva fortemente nazionale, perché ha a che fare con l’Intelligence e con una zona grigia di operazioni che vengono condotte senza essere dichiarate. Su questo aspetto è molto difficile avere un coinvolgimento dell’Unione europea, perché è un aspetto dove la sovranità nazionale, la sensibilità delle informazioni e la rapidità di risposta sono tutti fattori che possono cozzare con un approccio Ue. Un aspetto importante e spesso sottovalutato è che l’Unione europea contribuisca a standard e sviluppo di capacità tecnologiche in Europa che riducano la vulnerabilità rispetto ad attacchi cibernetici. Può sembrare controintuitivo ma la difesa e la risposta ad attacchi cibernetici inizia dallo sviluppo di sistemi, reti e software “secure by design” e su questo c’è un grandissimo margine di miglioramento e c’è un forte ruolo potenziale per l’Ue. Sul fatto che l’Unione intervenga con azioni di difesa, o di difesa avanzata, o di contrasto alla minaccia cibernetica ho molti dubbi proprio per quella che è la realtà della difesa cibernetica, E la realtà giuridica e istituzionale in cui si muove la stessa Ue.

E poi c’è la partita industriale della Difesa comune. La bozza di Strategic Compass rilancia il dibattito. Cosa dobbiamo aspettarci?

Il Fondo europeo di difesa sta cambiando in modo significativo il panorama delle cooperazioni industriali e tecnologiche nella difesa. Perché 7,9 miliardi di euro, oltre a essere di per sé non marginali, stanno mettendo in moto un meccanismo per cui è più conveniente passare da programmi nazionali a programmi co-finanziati dall’Edf. Quindi sta funzionando l’incentivo a uscire da una logica totalmente nazionale o bilaterale. Tali frutti si vedranno nel tempo. Sicuramente c’è ottimismo sia per il settore marittimo, sia terrestre, sia aerospaziale, tra l’altro con bandi Edf che spesso ricalcano progetti Pesco e che quindi hanno un valore aggiunto, perché nei progetti della cooperazione strutturata permanente c’è già un impegno da parte degli Stati membri per acquisire capacità.

Su cosa puntano le industrie europee?

Tutti i settori stanno vivendo un forte fermento di investimenti in ricerca, prototipi e architetture, e quindi in quello che arriva vicino poi al procurement e all’acquisizione vera e propria. Si sta puntando su diversi filoni contemporaneamente. Non è chiaro come possano rientrare nel contesto dell’Ue alcuni dei programmi più grandi in cui è più difficile una sintesi europea per via di storie pregresse che continuano, in particolare nel dualismo Tempest (in cui è presente anche il Regno Unito) versus Future combat air system (Fcas). In sintesi, le industrie europee puntano su tutti i settori. Edf sta funzionando come incentivo a investire insieme, a investire meglio, in programmi cooperativi. C’è un discorso molto forte sullo spazio sia con il progetto Dosa in Pesco sia sul duale con la costellazione proposta dal commissario Thierry Breton. Bisognerà vedere nel tempo dove maturano maggiormente dei consorzi, e quindi dei prodotti nel quadro Ue. Tempest e Fcas secondo me continueranno sicuramente separati per il breve periodo.

Le iniziative sono molte, ma il fondo Edf è di 7,9 miliardi in sette anni. Basteranno?

È sicuramente modesto di per sé e rispetto alla dotazione iniziale proposta che era di circa 13 miliardi di euro. Ma, da un lato, è significativo rispetto allo zero che metteva a bilancio la Commissione europea fino al 2016, dall’altro è significativo rispetto agli investimenti dei singoli Stati membri nella ricerca tecnologica. Perché Edf non è su procurement ma su ricerca tecnologica. I soldi messi ogni anno dalla Commissione sull’ Edf rendono la Commissione il terzo investitore nell’Ue in ricerca tecnologica militare dopo Francia e Germania, spendendo più dell’Italia, o della Spagna, o della Svezia, o della Polonia. Quindi non è marginale. La cosa importante è che si sta mettendo in moto un meccanismo per cui aggregandosi a geometria variabile, (ad esempio Francia, Italia e Spagna sulla corvetta europea) gli investimenti nazionali stanno facendo economie di scala, e stanno raggiungendo risultati potenzialmente migliori, perché sono meno frammentati su base nazionale. Questo è un effetto difficilmente misurabile adesso, ma solo così si ottengono prodotti qualitativamente superiori e su numeri in grado di reggere la competizione con i prodotti cinesi, russi o statunitensi. Potrebbe essere un grosso cambiamento.

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