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Etiopia, il piano di Biden. L’analisi di Cristiani (Gmf)

Di Dario Cristiani

Dal ritorno del terrorismo jihadista alla destabilizzazione del Sahel fino alle mire cinesi. Ci sono mille e più motivi per cui la guerra civile in Etiopia può trasformarsi in un enorme problema per gli Stati Uniti. E infatti Joe Biden ha mosso le sue pedine. L’analisi di Dario Cristiani (German Marshall Fund)

L’amministrazione Biden ha sanzionato l’esercito eritreo e il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia per il loro coinvolgimento nella crisi in corso nel nord dell’Etiopia. Queste sono le prime sanzioni che l’amministrazione Usa ha deciso di imporre, nel quadro più ampio dell’ordine esecutivo firmato da Biden il mese di settembre che autorizzava l’imposizione di sanzioni per il conflitto in Etiopia.

Sanzioni indirette, nel senso che non colpiscono – ancora – il governo etiope guidato da Abiy Ahmed o il variegato fronte dei vari gruppi di opposizione che si sono via via uniti al principale gruppo, il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigrè (TPLF), che si oppone al governo.

Queste sanzioni rappresentano, nonostante tutto, il segnale che l’amministrazione americana sta lentamente rimodulando il proprio approccio. Ad oggi, queste sanzioni avevano ancora colpito nessuno degli attori coinvolti, in quanto, come detto dall’ambasciatore Jeffrey Feltman, l’inviato speciale del governo americano per il Corno D’Africa, la minaccia di sanzioni e non la loro imposizione immediata serviva come ulteriore elemento di pressione rispetto alle diverse forze sul terreno per dissuaderle dal continuare.

Ma, non avendo sortito effetto alcuno – visto che la crisi è peggiorata nelle ultime settimane – Washington sta iniziando a cambiare approccio. Però si è ancora lontani da un intervento veramente di peso americano (semmai ci sarà). Ulteriore dimostrazione che, mentre la crisi etiope è chiaramente vista con preoccupazione negli Stati Uniti, l’Africa resta uno spazio marginale nella mappa delle priorità strategiche americane, uno spazio dove vi sono interessi parziali e settoriali ma non esistenziali.

Il segretario di Stato Antony Blinken ha espresso preoccupazione per “la potenziale implosione dell’Etiopia” mentre si appresta ad andare per la prima volta nel continente, con tappe previste in Kenya, Nigeria, Senegal. Gli Stati Uniti vedono la crisi principalmente attraverso due lenti: una più classica rispetto ai loro interessi in questo spazio, e che riguarda la minaccia del terrorismo regionale; e una più propriamente geopolitica, che concerne il potenziale impatto di un’eventuale dissoluzione etiope rispetto sia alle dinamiche strategiche regionali ma anche rispetto a tutti quei conflitti territoriali locali più o meno latenti che esistono in altri paesi africani e che potrebbero trovare nuova linfa qualora lo stato federale etiope collassi.

Rispetto al primo passaggio, gli Usa temono una ricaduta immediata in Somalia, ma anche altrove nel quadro più ampio dell’Africa orientale, sulle capacità dei paesi regionali di combattere le forza jihadiste. Le forze etiopi operanti nell’ambito della Missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom) o indipendentemente erano un attore molto importante in Somalia. Il loro peso militare è sempre stato significativamente superiore rispetto a quello delle forze somale, ad esempio.

La crisi in Etiopia, in effetti, ha ridotto la capacità di Addis Abeba di operare in quel contesto. Più in generale, con la minaccia del caos etiope, anche la capacità degli attori regionali di gestire queste minacce rischia di diminuire, visto che i paesi confinanti dovranno ricalibrare le proprie scelte per gestire le conseguenze dei problemi in Etiopia. In tal senso, tale concatenazione rischia di aprire nuove possibilità che al-Shabab o lo Stato Islamico ne traggano beneficio.

Rispetto al secondo passaggio, un governo centrale etiope strutturalmente indebolito può spingere alcuni paesi a mettere ulteriore pressione al governo per indebolirlo ancora di più. Si pensi ad esempio al Sudan e all’Egitto, paesi le cui relazioni con Addis Abeba restano tesissime a causa della Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd) e dei problemi legati allo sfruttamento del Nilo. Preoccupazione che resta molto viva nei circoli di Washington.

Inoltre, in questo quadro, vi è un ulteriore elemento di riflessione per gli americani. Ci sono anche dei passaggi legati alle dinamiche del conflitto che non vanno sottovalutati in chiave più ampia. La maggior parte delle armi pesanti usate dalle Forze di difesa nazionale etiope (Endf) sono di origine sovietica/russa e ucraina (carri armati T-72, i caccia Su-27, i MiG-23).

Ma nell’attuale contesto, il governo e l’esercito etiope hanno acquistato missili balistici dalla Cina e pare utilizzino droni iraniani, almeno stando a ciò che sostiene Bellingcat. Questi sviluppi sono visti con qualche timore a Washington, sebbene la crisi etiope confermi, rispetto alla Cina, la scarsa capacità di Pechino di riuscire ad operare diplomaticamente in contesti altamente militarizzati. La Cina ha mantenuto un profilo molto basso rispetto al conflitto nonostante l’importanza che l’Etiopia ha nella strategia africana e mondiale di Pechino.

Certamente, visto che la Cina ha investimenti imponenti sia nel Tigrè che in altre zone del paese, deve necessariamente evitare che la polarizzazione sul terreno minacci questi investimenti e le sue relazioni con il variegato e sempre più frammentato e polarizzato mondo politico etiope.

Al tempo stesso, però, questo basso profilo conferma che la Cina non è ancora pronta ad essere un attore di primo piano nella gestione diplomatica di tali crisi, passaggio che in qualche modo dimostra agli americani che la strada per una Cina che non sia più una potenza “parziale”, da un punto di vista diplomatico e militare, è ancora lunga. La presenza di armi cinesi in questo contesto, però, rappresenta certamente un elemento di preoccupazione e di attenzione per gli americani.

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