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A Glasgow un bicchiere mezzo pieno (di carbone)

Un accordo al fotofinish, un compromesso a ribasso. Nelle lacrime finali del presidente Alok Sharma c’è la delusione per una Cop26 che ha concluso poco. Il carbone diminuisce, ma non scompare, tuonano i Paesi in via di sviluppo. Ma c’è un bicchiere mezzo pieno nell’accordo sul clima. L’analisi di Erasmo De Angelis

Sarà ricordata per il colpo di mano al fotofinish dei Paesi a trazione energetica a carbone guidati dall’India che ha fatto annacquare di lacrime il “Glasgow Climate Pact” e chiudere la ventiseiesima Conferenza mondiale sul clima con un mezzo flop e l’arrivederci ai tempi supplementari della prossima COP27 nel novembre 2022, a Sharm El-Sheikh, nell’Egitto del caso Zaki.

I tredici giorni di negoziati non sono bastati a sciogliere i i nodi dell’accordo quadro sul clima tra 197 Paesi e nazioni del pianeta, e i “profondi disappunti” per i ritardi sono anche e soprattutto degli Usa e dell’Unione europea che si sono visti sfilare all’ultimo minuto una risoluzione molto più impegnativa per le Parti.

Le lacrime finali dello stesso presidente dell’assemblea, Alok Sharma, che la definiva “imperfetta”, scusandosi per le conclusioni al ribasso sulla transizione dai combustibili fossili, dicono tutto, come la standing ovation ricevuta da quasi tutti i delegati.

Glasgow dunque rinvia e lascia irrisolti i grandi nodi delle soluzioni che pure tutti invocavano ammettendo, in ogni intervento ascoltato, che le emissioni di carbonio in atmosfera e le temperature sul pianeta stanno battendo ogni record, anche nei clamorosi danni economici prodotti dalle catastrofi. Ma almeno un passo in avanti c’è, e c’è almeno un piano di lavoro per provare a reggere la Linea Maginot dell’aumento di 1,5 gradi di temperatura a fine secolo, con alcune scadenze.

Per evitare il “flop colossale” si sperava nel peso del “compromesso climatico” a sorpresa di tre giorni fa annunciato da Usa e Cina, ma nell’informale vertice finale convocato con l’Unione europea e l’India di Narendra Modi – che già aveva gelato i negoziatori chiarendo avrebbe raggiunto la neutralità carbonica, l’equilibrio tra CO2 emessa e quella assorbita, solo nel 2070, dieci anni dopo la Cina e vent’anni dopo il 2050 obiettivo fissato da Stati Uniti e Unione europea – il ministro dell’Ambiente indiano Bhupender Yadav, anche se aveva appena chiuso per una settimana tutte le scuole di una Dheli soffocata dallo smog e dal carbone, sollevava barricate.

In particolare contro la frase nel documento finale che impegnava alla “graduale eliminazione dei piani energetici a carbone”, puntando i piedi e riuscendo a ottenere la loro “graduale riduzione”, supportato da Australia, Iran, Sudafrica e anche dalla Cina con un voltafaccia inatteso. Con «phase down», invece di «phase out», hanno vinto la mano, e ammorbidito la decarbonizzazione.

Pur rimaneggiato, il “Climate Pact” contiene comunque i primi riferimenti a migliorare entro il 2022 gli impegni sul taglio delle emissioni di CO2, ad accelerare la “riduzione graduale” delle centrali a carbone e dei sussidi “inefficienti” ai combustibili fossili, anche se le formulazioni continueranno a permettere l’estrazione di carbone con l’impegno a “catturare” e “stoccare” CO2, ma le tecnologie sono molto costose e non immediate.

Tra chi vuole ridurre le emissioni e chi chiede tempo per il phasing-out, hanno vinto i secondi. Migliora però la formulazione sulla finanza, con l’accordo a raddoppiare gli investimenti per i paesi poveri nell’adattamento al clima entro il 2025, e ci sono gli impegni presi contro la deforestazione dal 2030, per ridurre le emissioni di metano, e per la decarbonizzazione dal 2050. Passare ad azioni concrete, immediate e verificabili non sarà per nulla facile.

Che sarebbe finita senza l’annuncio della grande battaglia climatica lo aveva capito già in mattinata il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Gutierrez, che fino all’ultimo ha continuato il suo pressing accorato ammonendo a non “sprecare l’opportunità perché sarebbe un suicidio”. Alla fine si è arreso anche lui all’evidenza e, platealmente, è ripartito senza partecipare alla plenaria conclusiva e senza aspettare la fine delle trattative.

E proprio la plenaria ha fatto risuonare discorsi critici e durissimi come quello del rappresentante della Guinea a nome delle 77 nazioni più povere, della rappresentante dalle isole delle Maldive che rischiano di finire sottacqua a fine secolo e ha rinfacciato le date indicate come “molto distanti e sarà troppo tardi perché per noi è una questione di sopravvivenza. Non portate speranza nei nostri cuori ma trilioni sono spesi nei sussidi combustibili fossili”. Come i rappresentanti di Grenada, Antigua e Barbados e delle Fiji che chiedevano di evitare un “futuro da cataclisma”. Tina Stiege, a nome delle Marshall ha quasi gridato: “Non posso tornare anche questa volta dai miei figli, a casa, e dir loro che non siamo riusciti a combinare nulla”.

Ma tutti comunque hanno accettato il “patto del clima” e ormai puntano alla prossima Cop27. John Kerry, l’inviato speciale di Biden, fino all’ultimo ha trattato con tutti, e soprattutto con il negoziatore cinese Zhao Yingmin.

Nel suo discorso, pieno della grande retorica americana, ha elogiato lo “spirito di compromesso”, assicurando che l’impegno degli Usa è reale e concreto, ma con realismo ha anche spiegato che “non possiamo risolvere tutte le questioni qui e adesso. Glasgow non era la fine di questo lungo viaggio, ma una tappa”.

Restano quindi le ombre indiane e cinesi, grandi consumatori al mondo del più inquinante tra i combustibili fossili, con oltre il 70% dell’elettricità indiana prodotta da centrali a carbone e dei paesi a economia “fossile” che non smantellanno le centrali nei “tempi giusti” e resteranno tra i maggiori emettitori mondiali di gas a effetto serra. Glasgow doveva relegare il carbone “al passato”, ed è pronto ad archiviarlo l’Occidente a trazione Usa-Europa ma il carbonio prodotto continuerà per ora ad inquinare l’atmosfera e accelerare l’emergenza climatica.

Non è bastato dunque, a muovere la diplomazia climatica, nemmeno l’ultimo agghiacciante rapporto scientifico dell’Ipcc dell’Onu che segnala il pericolo che il clima sfondi presto il muro dei 2 gradi di riscaldamento, raggiungendo i 3 °C entro fine secolo, il doppio rispetto all’incremento massimo concordato a Parigi, la soglia insostenibile per vaste zone del Pianeta: dai piccoli stati insulari del Pacifico a tratti di coste del Mediterraneo in balia dell’aumento del livello del mare che temono un futuro da migranti climatici, dalle ampie aree dell’Africa e del Sudest asiatico a quelle degli Stati Uniti esposte a eventi meteo estremi come ondate di caldo e alluvioni con vittime e l’esborso finanziario per riparare i danni sempre più elevato.

E l’Agenzia internazionale per l’energia che calcola che per rispettare gli Accordi di Parigi del 2015, dovevano già essere chiuse oltre il 40% delle 8500 centrali a carbone del mondo senza costruirne di nuove per ridurre del 45% delle emissioni di CO2 nel 2030, e raggiungere la neutralità carbonica nel 2050.

Il “patto” di Glasgow tiene flebilmente in vita l’obiettivo di non andare oltre il catastrofico 1,5 di innalzamento delle temperature e vedremo se il nuovo corso con la nuova alleanza climatica tra Usa e Cina aprirà la strada alla transizione ecologica promessa. Lo sapremo già domani con il primo faccia a faccia ancorché in videoconferenza tra Biden e Xi.

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