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“Il veleno nella coda”, ascesa e caduta dell’Italian dream

L’Italia del sogno Mediaset, i tentativi e i fallimenti di un personaggio ambizioso, su cui incombe l’ombra del padre, il “dentista di Berlusconi” morto suicida. Il romanzo autobiografico di Francesco Mazza è diventato un cult. Ecco perché

Un libro anti-letterario che sta diventando un caso letterario. Si parla dell’autobiografia di un quarantenne, Francesco Mazza, che ha raccontato il proprio rapporto/contrasto col padre, ne “Il veleno nella coda” (Laurana). E fin qui abbiamo a che fare con un topos, sia nei plot narrativi che nelle considerazioni dei saggisti. La crisi della figura paterna rimanda all’onda lunga freudiana e lacaniana: la ricerca del padre da parte del figlio, con le sue implicazioni culturali e psicologiche, è stata raccontata, per esempio, nel bel libro su Telemaco di Massimo Recalcati. La fuga infinita dalla personalità del padre è la linea della prosa più feroce di Giuseppe Berto, l’indifferenza e fastidio per il padre è la costante di Michel Houellebecq.

Nel caso di Mazza ci sono diversi elementi strani, incongruenti, per questo interessanti, notati dai vari recensori (da Giovanni Pacchiano a Davide Brullo, al Domani e altri) che hanno fatto di questo romanzo-biografia un libro di culto. Per primo chiediamoci: ha senso per un quarantenne ricapitolare propria vita? Sì, se interviene qualcosa di drastico, ultimativo, che non permette più alla vita di andare avanti come prima, e costringe a tirare le fila delle esperienze fatte, vale a dire degli errori commessi. Massimo Mazza, il padre dell’autore, si suicida nel 2019.

Di origini umili, ambizioso, geniale, maniacale, è un chirurgo maxillofacciale e un dentista di successo, le cui tecniche innovative hanno creato seguaci in tutto il mondo. Ha denaro, ha amanti. Massimo Mazza è stato, per anni, il dentista di Berlusconi. Il libro si svolge lungo l’arco dell’apogeo e della caduta berlusconiana: il tema personale e poi generazionale (padri e figli) è inestricabile dal tema generale: la parabola sociale di un Paese prima esaltato dall’era-Mediaset -forse l’ultimo, controverso, momento di euforia dal Dopoguerra- poi disilluso in tutti i modi possibili.

Nel libro ci sono aneddoti inediti su Villa Certosa, diversi incontri del protagonista con Berlusconi, ma non è un libro antiberlusconiano. Francesco Mazza è laico rispetto al potere: ne osserva i meccanismi, registra la presenza del demone interiore (“l’oscuro inquilino”, lo definisce) che chiede soldi, fama, successo, dentro ognuno di noi. E non si professa immune, anzi, dichiara le intenzionalità e i fallimenti. Bimbo prodigio alla trasmissione “Il raggio verde” di Michele Santoro, autore a Italia1 e poi autore di “Striscia la notizia”, con guadagni considerevoli e poca libertà, decide di mollare tutto e scappare a New York. Studia cinema. Riesce a girare un cortometraggio (“Frankie: Italian roulette”) costoso, bello, premiato, e ignorato.

E qui siamo a un altro punto notevole del libro: Mazza scrive un romanzo-autobiografia, ma è una prima persona che non ha niente di soggettivo, piuttosto racconta quello che succede a lui come se succedesse a un altro: il contrario dell’autofiction. Il veleno nella coda è un libro quasi antiletterario, si diceva all’inizio, perché usa un linguaggio medio, libero dalle ossessioni della “voce d’autore”, più vicino semmai a una sensibilità cronistica. Quando parla di sé Mazza riesce, con un equilibrio invidiabile, a non avere né pudore né ostentazione. Parla di sé come di fatti che accadono.
Perché è concentrato a osservare: se stesso, l’Italia, e il suo miglior nemico, il suo peggiore amico: Massimo Mazza, il padre. Che sostanzialmente lo ignora, come ci ignorano i fenomeni meteorologici: frane, inondazioni, terremoti. E anche qui c’è un motivo di interesse, forse il più importante del libro. Tradizionalmente, da Turgenev, o da prima, il rapporto padri/figli si declina così: il padre è custode di una qualche tradizione, è colui che trasmette la costellazione dei “valori”, dell’ordine stabilito. Il figlio è il ribelle, l’”intellettuale” (nel senso che fa domande, mette in questione, non si accontenta di quello che gli viene garantito).
Le cose cambiano per le ultime generazioni: i figli dei baby boomers si trovano davanti a padri che si ritengono rivoluzionari, che hanno scardinato le gerarchie sociali e culturali. Sono i primi critici del sistema, le schegge impazzite. Che tipo di rapporto si può avere con una figura paterna “esplosa”, nella fattispecie uno che in casa urla e minaccia, di tanto in tanto sparisce con un’amante, si sente un supereroe e un fallito allo stesso tempo, scappa da qualsiasi responsabilità, da quelle familiari a quelle professionali? Nello svolgimento del libro si cerca di rispondere a questa domanda. Fino ad accogliere nelle ultime pagine, l’autobiografia che il padre ha lasciato in un file prima di suicidarsi. Una sorta di contro-versione di tutta la vicenda, da cui risulta che il dentista di Berlusconi ha agito secondo follia ma con un senso.
A chi dare credito allora, nella battaglia al coltello (perché questo è) tra padri e figli, che si svolge tra personale e politico, individuale e sociale? È possibile liberarsi di un’identità, personale e collettiva, “malata” o bisogna usare la malattia, personale e collettiva, per andare avanti? I saggisti possono dare delle soluzioni, forse. Gli scrittori possono porre il problema con il massimo dell’evidenza. È quel che accade in questo libro.

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