Nel suo libro Luigi Di Maio mostra di avere il dono della comunicazione e maneggia l’advertising meglio di un professionista fatto: “Sono sempre stato un tipo molto cauto, attento alle sfumature e pieno di dubbi”, scrive a un certo punto. Dichiarando non solo un’indole, ma tracciando in nuce un programma politico. Che però non è quello del Movimento, nossignore. È quello del PD: Partito Doroteo. La rubrica di Pino Pisicchio
Perché si scrive un libro? Naturalmente le ragioni possono essere diverse: il professore universitario lo deve fare per lavoro, lo scrittore di professione per contratto, il generale alla fine della carriera scriverà la sua versione delle guerre perse per giustificarsi di fronte al mondo. Il poeta per l’inestinguibile fuoco creativo che trova compimento soltanto quando la parola entra nella pagina e il lettore la fa sua.
Da qualche tempo, però, la memorialistica politica sta entrando a gamba tesa nel mercato editoriale, quasi a rappresentare una sua autonoma modalità espressiva: Salvini, Renzi, Letta, Meloni e adesso Di Maio producono libri. Dunque si può scrivere un libro anche per fare politica. Ha importanza lo stile, la cifra creativa, l’originalità della scrittura? Diciamo chiaramente: non sono le pagine del Principe di Machiavelli (anche lui politico, ma di minor fortuna degli autori di oggi e del “politologo” immenso che pure fu), ma quelle di personalità della scena pubblica contemporanea, che dunque vanno giudicate con altri criteri. C’è chi lo fa con la verifica del fact-checking, per cogliere in fallo l’autore nel caso di bufale e inesattezze.
Io credo che il modo migliore rappresenti un’attenzione al livello di lealtà mantenuto con il lettore, senza infingimenti e senza bugie. In questo senso, allora, “l’autobiografia della meraviglia” di Luigi Di Maio, vice-presidente della Camera dei Deputati a ventisei anni, a 34 già vice-premier e tre volte ministro con ruoli chiave nel governo del Paese e poi anche per lungo tempo capo politico di un partito del 32,7%, si può situare con grande agio non in una bibliografia, ma nella filmografia, quella di Frank Capra. Direi: La vita è meravigliosa, con James Stewart nella parte del caritatevole George Bailey, toccato da un Angelo Custode la notte di Natale e tramutato in un uomo fortunato. Possiamo supporre quali fattezze abbia preso l’angelo del film di Capra per manifestarsi a Luigi Di Maio: forse non quelle diafane e longilinee dell’iconografia eterea condivisa, ma quelle un po’ più tracagnotte e circonfuse di Vaffa al posto dell’aureola, di Beppe Grillo.
Il punto non è questo, ma quello che Luigi ha saputo fare del Greatest Gift, il più grande regalo che gli poteva capitare nella vita. E allora dobbiamo riconoscere che il suo “Amore chiamato politica” (Piemme editore, €17,50) è stato ripagato: il ministro degli Esteri russo Lavrov, che nel bilaterale del G20 si presenta brandendo il libro del suo giovane collega, racconta meglio di qualsiasi altro commento il senso di una personale vittoria che, sui non affatto fragili omeri di un giovane di Pomigliano d’Arco (ma, attenzione, è nato ad Avellino terra fertile per la democristianeria degli anni belli, a partire da De Mita e Gerardo Bianco…), ha trovato stabile accomodamento. E se qualche nasino comincia a torcersi nel senso antiorario bisognerà ricordare che sono stati gli elettori e non il bau bau a portare il Movimento Cinque Stelle a raccogliere oltre 10,7 milioni di voti e 338 parlamentari alle politiche del 2018. Siamo in una democrazia parlamentare e Di Maio è stato, attraverso modalità scelte dal suo partito, designato a tutte le alte cariche che ha ricoperto: dunque raddrizzate i nasini.
Quel che si apprezza nel libro – a parte una strepitosa somiglianza con i tratti iconici della specie democristiana più tosta e tenace, quella dorotea che in Italia oggi viene interpretata ormai solo dal giovane Luigi e dal maturo Gianni Letta, tutti gli altri desaparecidi – è la narrazione piena di stupore per l’avventura che sta vivendo. Ma, attenzione, sorpresa non perché tutto ciò (governo, palazzi romani, incontri coi potenti del mondo) si sta compiendo, ma perché sta avvenendo velocemente. Perché a Luigi la politica piace ed ha l’approccio giusto – attenzione ai dossier, confronto con i tecnici, capacità di ascolto, frequentazione di buoni salotti – per non fare la fine di un Bel Ami qualunque, impattando violentemente con quello che brucia sempre chi arriva troppo presto al potere vero senza anticorpi: pensare che il potere sia eterno e che lui sia il meglio fico del bigoncio.
Luigi si fa apprezzare anche per le sue autocritiche, necessarie e forse scontate sugli attacchi a Mattarella dopo l’esclusione dal governo di Savona, ma c’è da credergli perché sono coerenti con un percorso evolutivo che gli ha fatto lasciare i tratti dell’antagonismo istituzionale già da quando mise piede nello scranno di vicepresidente della Camera nella passata legislatura. In fondo si trattava fin dall’inizio del profilo più istituzionale che il Movimento potesse proporre. E non ha mai avuto problemi nell’indossare abiti sartoriali e cravatte di Marinella, a differenza di tanti colleghi più engagés, ma magari in difficoltà con il nodo.
Il libro effonde buoni sentimenti e buone parole per molti, dal collega di partito Conte, ad alleati di altri partiti: gentili sentimenti sopravanzano antipatie e rancori. Se ce ne sono restano sotto il tappeto.
In fondo Di Maio mostra di avere il dono della comunicazione e maneggia l’advertising meglio di un professionista fatto: “Sono sempre stato un tipo molto cauto, attento alle sfumature e pieno di dubbi”, scrive a un certo punto, dichiarando non solo un’indole, ma tracciando in nuce un programma politico. Che però non è quello del Movimento, nossignore. È quello del PD: Partito Doroteo.