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Nucleare, ecco il convitato di pietra al G20 e alla Cop26

L’Italia ha presieduto il G20 ed è co-presidente, con il Regno Unito, della COP26. Ed è, nelle vesti di presidente e co-presidente, in una difficile posizione per essere lo Stato che pone sul tappeto un tema che è divisivo. Si può veramente pensare di risolvere i problemi del clima, strettamente legati a quelli dell’energia, senza ricorrere al nucleare utilizzato a fini pacifici di sviluppo?

È stato il convitato di pietra, o, se si preferisce, il “grande assente” al G20 appena terminato a Roma e lo sarà, molto probabilmente, alla COP26 appena iniziata a Glasgow. Si può veramente pensare di risolvere i problemi del clima, strettamente legati a quelli dell’energia, senza ricorrere a lui? Di chi si tratta: del nucleare utilizzato a fini pacifici di sviluppo.

L’Italia ha presieduto il G20 ed è co-presidente, con il Regno Unito, della COP26. Ed è, nelle vesti di presidente e co-presidente, in una difficile posizione per essere lo Stato che pone sul tappeto un tema che è divisivo.

Tanto più che nel Belpaese, i risultati del referendum dell’8 novembre 1987 sono stati interpretati come se gli italiani chiedessero l’abolizione e la chiusura delle centrali nucleari già esistenti (Trino Vercellese, Borgo Sabotino – Latina e Garigliano) o in fase avanzata d’allestimento (Montalto di Castro). Gli impianti sperimentali (Pec e Cirebe) erano stati dismessi nel 1983 perché ritenuti obsoleti dalla stessa Enea.

In effetti, vale la pena ricordare che nessuno dei tre quesiti referendari attinenti al nucleare (gli altri due riguardavano la giustizia) chiedeva l’abolizione o la chiusura delle centrali nucleari. I votanti furono il 65,1%, con un’altissima percentuale di schede nulle o bianche che andarono dal 12,4% al 13,4%. I quesiti chiedevano solamente che venissero eliminati i sussidi che lo Stato dava ai comuni che ospitassero nel loro territorio impianti nucleari. Devo ammettere che allora anche io feci un’analisi che raccomandava non l’arresto dei lavori ma la conversione della centrale in costruzione a Montalto di Castro a impianto energetico a policombustibile, nell’ipotesi che i rischi del nucleare erano minimi ma ove ci fosse stato un incidente i costi sociali sarebbero stati enormi come poi avvenne. Devo riconoscere che l’economista ed ex ministro Francesco Forte, con cui ero in dibattito, aveva ragione: sarebbe stato sufficiente integrare l’impianto con (allora) nuovi dispositivi di sicurezza in avanzata fase di sperimentazione nel Regno Unito.

Tutto questo riguarda il passato, per così dire “nostrano”. Il presente europeo non è incoraggiante. Un’analisi del fascicolo The Economist del 30 ottobre-5 novembre ricorda che uno dei tre pilastri di quella che oggi è l’Unione europea (Ue) era la cooperazione nel nucleare (con l’Euratom fortemente voluta da Jean Monnet e il cui Trattato risale al 1957 e venne firmato a Roma); oggi è una “pasticciata determinante di discordia”, soprattutto dopo la decisione della Repubblica Federale Tedesca, sulla scia del disastro di Fukushima nel 2011) di dismettere nell’arco di dieci anni i propri impianti di energia atomica; è improbabile che una coalizione in cui i “verdi” siano determinanti ritorni sulla decisione. Oggi, si può dire che tra i 27 c’è solo un’improbabile triade apertamente “nuclearista”: Francia, Polonia e Repubblica Ceca. Oggettivamente difficile pensare che una proposta per portare al tavolo dei futuri G20 ove non della COP26 il convitato di pietra possa venire dall’Ue.

Tuttavia, potrebbe venire dai grandi Paesi in via di sviluppo, come India, Indonesia e Cina, che hanno sempre evitato di prendere impegni precisi in materia di riduzione delle emissioni di energia da fossili perché ben sanno che ciò può comportare costi elevati e riduzione dei tassi di crescita. Un rallentamento dello sviluppo, a sua volta, comporta aumento degli squilibri sociali e forti tensioni interne tali da minare i governi in carica. L’Indonesia ha un’agenzia ed un programma per lo sviluppo del nucleare. In India ci sono già i grandi impianti nucleari.

Il prossimo G20 sarà presieduto dall’Indonesia e si terrà a Bali. È un’opportunità per riportare sul tavolo dei “grandi” la discussione sul nucleare in base alle più recenti conclusioni scientifiche sulla sicurezza. Potrebbe essere commissionato uno studio multilaterale da esaminare al G20 2023 che sarà presieduto dall’India.

Lo studio potrebbe esaminare, in particolare, i reattori nucleari di IV generazione (Gen IV), ossia un gruppo di 6 famiglie di progetti per nuove tipologie di reattore nucleare a fissione che, pur essendo da decenni in considerazione, non si sono ancora concretizzati in impianti utilizzabili diffusamente in sicurezza. Alcuni ritengono che saranno disponibili commercialmente fra alcune decine di anni (2030-2040), altri che potrebbero essere già fruibili nel 2025.

Il loro studio è stato promosso dal Forum Internazionale Gif (Generation IV International Forum) fondato nel 2000 dal Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti d’America e a cui hanno aderito Argentina, Brazil, Canada, France, Giappone, Corea, Repubblica del Sud Africa e Regno Unito. Rappresenta una proposta di evoluzione del settore, non l’unica: parallelamente ai reattori di quarta generazione si stanno facendo ricerche sui reattori a fusione. Quindi, c’è ampio materiale. Gli “sherpas” potrebbero cominciare oggi un discreto e silenzioso lavoro. Nell’interesse di tutti.



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