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La cornamusa tappata della politica attiva del lavoro

Di Luigi Tivelli e Stefano Scabbio

Il Pnrr mette a disposizione 4,4 miliardi per le politiche attive. Ma questi soldi sono stati da poco distribuiti tra le Regioni, con il rischio che si creino tante piccole cornamuse da cui non escono suoni. Luigi Tivelli e Stefano Scabbio spiegano perché

Il simulacro di politica del lavoro in atto potrebbe essere raffigurabile con l’immagine di una cornamusa tappata in cui si soffia dentro (i soldi che si immettono) ma da cui esce ben poco in termini di nuova qualità del governo, del mercato del lavoro e della politica attiva del lavoro. Ed è vero che il Pnrr mette a disposizione 4,4 miliardi per quella che viene definita Gol (Garanzia dell’occupabilità dei lavoratori) ma questi soldi sono stati da poco distribuiti tra le Regioni, con il rischio che si creino tante piccole cornamuse da cui non escono suoni.

Due tra i grandi fallimenti delle politiche attive del lavoro dipendono, il primo da una parte dalle Regioni che adottano politiche sulla formazione professionale diverse e non armoniche a livello nazionale, alcune virtuose per altro ma non adottate in altre generando cosi frammentazione e meno efficacia proprio nelle regioni del mezzogiorno dove c’è più disoccupazione. Il secondo dallo stato dei centri pubblici per l’impego, a dire il vero un po’ rachitici, pur anch’essi con diffusione sul territorio a macchia di leopardo.

Forse bisognerebbe riflettere sui danni che ha procurato il “condominio”, cioè la competenza concorrente tra Stato e Regioni sulla politica del lavoro. Tutto questo avviene mentre i dati sull’occupazione non sono certo confortanti. Nel primo trimestre del 2021 il tasso di occupazione ha continuato a scendere, raggiungendo il livello del 56,6% con un calo di 0,6 punti percentuali rispetto al trimestre precedente. Nei primi tre mesi dell’anno ci sono il 3,9 % di lavoratori occupati in meno rispetto ai primi tre mesi del 2020, secondo i dati Istat. Una diminuzione che riguarda le donne ancora più dei maschi e i giovani ancora più degli adulti: tra i 20 e i 24 anni il gapè ancora maggiore, 1,4% di occupati in meno e 2,9% di occupate in meno rispetto allo stesso periodo del 2020.

Eppure viviamo in un Paese che ha una fame assoluta di lavoro e gli effetti del Pnrr dovranno essere misurati non solo per la ripresa economica che beneficia di un forte rimbalzo di oltre il 6% quest’anno e beneficerà di un rimbalzo minore nel 2022 (ma poi bisognerà vedere come proseguirà il trend negli anni successivi), ma dalla maggior occupazione che genera e dal contributo alla soluzione dell’atavico problema del lavoro.

Non dimentichiamo che in Italia il tasso di occupazione è il peggiore in Europa dopo quello della Grecia. Esso ammonta infatti solo al 58,1% della popolazione in età di lavoro, a fronte di un 67,7% della media dell’Unione Europea. Ed è sceso ulteriormente grazie alla pandemia. Tutto questo in un quadro in cui meno della metà delle donne (il 49%) lavora, con livello di 13,5% sotto la media dell’Unione Europea che è del 62,5%.

A fronte di questi dati il tema della politica Attiva del Lavoro dovrebbe essere centrale nell’agenda del governo e delle forze politiche, mentre, a parte di un po’ di pour parler tra il ministro del Lavoro, i sindacati e i Presidenti delle Regioni, le forze politiche manifestano un silenzio assoluto su questo tema. Mentre l’unica voce che a volte si sente suonare forte è quella del presidente di Confindustria Bonomi. Giustamente perché le imprese, specie manifatturiere, anche negli anni della pandemia hanno fatto un grande sforzo e stanno ottenendo ottimi risultati, così come i lavoratori presi come singoli, mentre più obsoleta e tradizionalista è l’impostazione del sindacato.

Qualcuno potrebbe obbiettare che il governo quei 4,4 miliardi di qui al 2026 stanziati per la Gol dal Pnrr si sta impegnando. Peccato però che questo avvenga puntando su strumenti vetusti e spesso poco efficaci e suuna netta obsolescenza e rachitismo dei centri pubblici per l’impiego. Non è che gonfiando un po’ i Centri pubblici per l’impiego passando, come previsto, man mano nel corso degli anni del Pnrr da 8.000 a 20.000 dipendenti per tali centri si risolve il problema.

Ci sembra onestamente che sia ben di più quello che si ottiene creando una forma di emulazione competitiva e parificando per vari aspetti le Agenzie private per il lavoro ai centri pubblici per l’impiego che non facendo una politica centrata sull’aumento del personale dei centri pubblici per l’impiego, pur per certi versi necessario.

Per un buon modello di governo del mercato del lavoro, basato su quella flex security cui puntava per certi versi il Job’s Act (poi semi cancellato da alcune riforme dell’ex ministro del Lavoro Di Maio, come il Decreto Dignità e l’affidamento dell’Anpal a uno strano professore universitario americano). Flex security significa flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro e puntare, come avviene in tutti e grandi e medi Paesi europei (pensiamo al caso della Danimarca per tutti), su flessibilità e sicurezza nel governo del mercato del lavoro e nella politica attiva del lavoro.

A questo fine le agenzie per il lavoro conoscono le risorse umane meglio dei centri pubblici per l’impiego, sanno fare con cognizione di causa la profilazione dei lavoratori, possono avviare sui mercati locali processi di riconversione professionale, conoscono bene i modelli di ricollocazione dei lavoratori e potrebbero essere coinvolte in un grande progetto di formazione digitale e riconversione professionale dei lavoratori che coinvolga anche i lavoratori in cassa integrazione e magari pure una parte significativa dei beneficiari del reddito di cittadinanza.

Ci sembra che a livello normativo non ci sia ancora nessun passo in questa direzione, salvo qualche flebile dichiarazione di intenti. Va preso atto una volta per tutte che non c’è vera crescita per un Paese come l’Italia se non aumenta la partecipazione dei giovani, delle donne e dei lavoratori in età matura alla forza lavoro e, quindi, se non cresce il tasso di occupazione.

Si tratta di un nodo prioritario che va sciolto al più presto stringendo le dita nelle leve giuste, altrimenti anche il Pnrr per non pochi versi, per quanto riguarda la politica economica e industriale si rivelerà un’occasione perduta. Un punto su cui il presidente del consiglio Draghi dispone di tutte le competenze per intervenire, probabilmente meglio se accorpando a sé un dossier cruciale e dedicato come quello della politica attiva per il lavoro per il nostro Paese.

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