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Pensioni e riscatto della laurea, non è un Paese per giovani

Sempre a meno ragazzi interessa il famoso “pezzo di carta” anche perché ormai averlo conta veramente poco non ricevendone alcun vantaggio competitivo. Se, quindi, l’intento del riscatto gratuito della laurea era questo, allora l’obiettivo è stato perfettamente centrato con buona pace di tutti coloro i quali pensano credono ancora nel valore della conoscenza. L’opinione di Piefrancesco Malu

Essendo il nostro un Paese relativamente vecchio, il tema della previdenza è un argomento particolarmente caro a tutti gli italiani, inserito tra l’altro in molte delle recenti leggi di bilancio, compresa quella 2022 che dovrebbe destinare alle pensioni circa 600 milioni di euro e riformare l’insostenibile quota 100. Peccato però che il tema della pensione è strettamente legato a quello del lavoro (soprattutto con la previdenza contributiva) frammentato e a singhiozzo di questi tempi, e che questa è diventata un miraggio sempre più lontano per intere generazioni, tanto che, secondo le stime, per i nati negli anni Ottanta la pensione (chissà pure di quale entità) potrebbe arrivare attorno ai 75 anni. È vero che la speranza e la qualità della vita si sta tendenzialmente allungando, ma questa sembra essere davvero un’età troppo avanzata per rimanere in piena attività. Certo è, però, che senza decisi e tempestivi interventi di contrasto alla denatalità, incentivi alle famiglie e un serio progetto di accoglienza le soluzioni per la sostenibilità economico-finanziaria del Paese non possono essere molto diverse da queste.

Ritornando però allo stretto legame tra età pensionabile e lavoro, di recente, in questo dibattito si è inserito anche Beppe Grillo con alcune proposte meno peregrine del solito. Tra queste, una su tutte meriterebbe di essere discussa con maggiore attenzione: quella relativa al riscatto gratuito della laurea, ciò che viene descritto dal fondatore del Movimento 5 Stelle come “un giusto incentivo, per studiare, ma allo stesso tempo una tutela (per i giovani) rispetto al fatto che entrano più tardi nel mercato del lavoro”.

In effetti, per quanto dispendiosa per lo Stato che dovrebbe rinunciare ad una certa quota di entrate extra, questa potrebbe essere una misura di equità sociale. In effetti, la stragrande maggioranza degli studenti universitari ha versato per anni (talvolta ahimè più a lungo del dovuto) ingenti tasse per finanziare i propri studi investendo sostanzialmente nella propria formazione, nel proprio futuro e in quello del Paese. Eppure, per far sì che quegli anni possano essere conteggiati a fini previdenziali è necessario “riscattarli” (e già il termine la dice lunga, quasi si trattasse di un rapimento) pagando profumatamente.

In molti, soprattutto giovani disoccupati o inoccupati, anche in tempi recenti, hanno provato a farlo attratti dall’idea di dover pagare cifre apparentemente contenute. Eppure, sono andati a sbattere contro la realtà delle richieste che ammontano a diverse migliaia di euro, talvolta nell’ordine delle decine. Decisamente troppo per tutti quelli (e non sono pochi) che vivono in una situazione lavorativa, spesso frammentata o saltuaria, ai limiti della sussistenza e che, inevitabilmente, hanno desistito. Ma c’è di più. Una volta fatta richiesta del riscatto questa non può essere sospesa, ovvero pagarne una rata ogni volta che questo è possibile come una sorta di “piano di accumulo”, ciò che crea un ulteriore ostacolo.

Tuttavia, secondo le ultime rilevazioni dell’Istat, in Italia solo il 20,1% della popolazione (di 25-64 anni) possiede una laurea contro il 32,8% nell’Ue. Ciò è dovuto al già ridottissimo valore aggiunto che viene attribuito alla laurea che, in moltissimi casi, non garantisce né un accesso agevolato al mondo del lavoro (anzi, spesso peggiore a causa di un ingresso più tardo), né migliori condizioni né, tantomeno, uno stipendio adeguato in grado di compensare gli sforzi e gli investimenti fatti. A tutto ciò si aggiunge la beffa di dover anche riscattare gli anni di studio contribuendo a svilirne il valore.

Il risultato è che sempre a meno ragazzi interessa il famoso “pezzo di carta” anche perché ormai averlo conta veramente poco non ricevendone alcun vantaggio competitivo. Se, quindi, l’intento di questo genere di politiche era questo, allora l’obiettivo è stato perfettamente centrato con buona pace di tutti coloro i quali pensano credono ancora nel valore della conoscenza.

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