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Da quella sindacale a quella del centrodestra, triplici alleanze nei guai

La triplice sindacale, che per decenni ha rappresentato un pilastro della politica italiana, a differenza del centrodestra, che pare perdersi su troppi temi, da quando Draghi è a Palazzo Chigi sembra scegliere temi sbagliati che, per di più, interessano pochi italiani già in là con l’età. Ecco gli errori e come uscirne secondo Giuseppe Pennisi

Chi ha fatto la scuola superiore sa come andò alla Triplice Alleanza: uno dei partner (l’Italia), non obbligato ad affiancare gli altri due (Austria e Germania) in caso di guerra “offensiva”, si sfilò in un primo momento dal conflitto e poi scese sui campi di battaglia a supporto dell’Intesa (Francia, Gran Bretagna, Russa) determinando l’esito della Prima guerra mondiale.

Ora, due “triplici” (quella sindacale e quella del centrodestra) sono messe in crisi dal governo Draghi. Nei giorni del G20 e nell’avvio della COP26, si è visto chiaramente che il presidente del Consiglio Mario Draghi ha una statura sia interna sia internazionale molto più elevata di ciascuno dei suoi potenziali oppositori o competitori. A sinistra, il matrimonio (o duplice alleanza) tra Partito Democratico (Pd) e Movimento 5 Stelle (M5S), già in crisi perché l’arrivo di Draghi ha fatto saltare l’idillio giallorosso, è sempre più problematico e l’esultanza del PD (non del M5S) dopo le elezioni amministrative è stata affossata con la cosiddetta “Legge Zan”. Nel centrodestra c’è una triplice alleanza formale, con incontri settimanali, ma si fa fatica a trovare un collante comune tale da avere presa sull’opinione pubblica.

La triplice sindacale, che per decenni ha rappresentato un pilastro della politica italiana, è anch’essa in gravi ambasce. A differenza del centrodestra che pare perdersi su troppi temi, da quando Draghi è a Palazzo Chigi la triplice sindacale pare scegliere i temi sbagliati che, per di più, interessano pochi italiani già in là con l’età.

Nei primi mesi del governo Draghi, la triplice sindacale ha insistito per “un patto per il lavoro” che sarebbe dovuto essere simile all’”accordo di San Tommaso” concluso tra una quarantina di soggetti ai tempi del governo Ciampi del 1993. Non solo non è mai una grande idea tentare di rimettere la lancette dell’orologio indietro di circa trent’anni, ma le politiche, le strategia, i programmi e le misure per i prossimi sei anni sono dettagliate nel Piano nazionale e resilienza (Pnrr) e nelle sue 53 riforme, Pnrr redatto, firmato e sigillato con l’Unione europea (Ue). Se si deroga o si sgarra si perdono oltre 200 miliardi di euro.

Accantonata l’idea di un novello “accordo di San Tommaso”, al momento della preparazione della legge di Bilancio, i confederali hanno cavalcato un loro destriero storico – le pensioni – senza accorgersi di prendere un vecchio ronzino sfibrato invece di un puledro da corsa. Si sono imbrigliati in una polemica su varie “quote” senza accorgersi che interessa pochi lavoratori anziani di genere maschile del Nord. Hanno anche proclamato uno stato di agitazione. Non hanno notato che, nel contempo, l’Inpgi (Istituto di previdenza dei giornalisti) sull’orlo della liquidazione veniva inglobato nell’Inps portandosi dietro privilegi inauditi – come dettagliato nell’articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti su lavoce.info del 30 ottobre. E che se non cambiano le cose, i giovani resteranno senza pensioni o con pensioni inferiori al cosiddetto Reddito di cittadinanza.

In attesa di una vera riforma della previdenza (su cui si è scritto spesso su questa testata) che dia la priorità ai giovani e da farsi con un provvedimento ordinamentale distinto dalla legge di Bilancio, i sindacati dovrebbero porre, a voce alta, il problema della spesa sanitaria – argomento appropriatissimo per la legge di Bilancio – in cui l’Italia arrancava prima della pandemia e arranca di più oggi.

Grande errore. Se avessero voluto essere i sindacati di tutti i lavoratori, e di tutti gli italiani, avrebbero dovuto puntare non sulla difesa particolaristica di pochi ma sull’adeguato finanziamento e riassetto della sanità, le cui insufficienze, dopo dieci anni di compressione della spesa, sono state portate agli occhi di tutti. E di cui attendono un miglioramento.

Come ho ricordato anche altrove, secondo l’ultimo rapporto Ocse Health at a Glance Europe 2020, uscito in questi giorni, l’Italia resta fanalino di coda per quanto riguarda la spesa sanitaria in Europa: il confronto è effettuato sui valori di spesa pro capite a parità di potere d’acquisto che indicano per il nostro Paese una spesa nel 2019 pari a 2.473 euro (a fronte di una media Ocse di 2.572 euro) con un gap vertiginoso rispetto ad alcuni Paesi di riferimento come Francia e Germania che, rispettivamente, segnano una spesa sanitaria pro capite di 3.644 euro e 4.504 euro.

Durante la pandemia, questa testata ha auspicato, senza esito, che il governo Conte facesse ricorso ai 37 miliardi del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per migliorare la sanità. Ricorso non fatto perché considerato “divisivo”. A fronte dei 68 miliardi di stanziamenti preconizzati nel programma predisposto dal ministero della Salute, di cui 37 a valere sul Mes, il Pnrr ne prevede solo 20, ma altri investimenti per la sanità sono previsti alla voce “digitalizzazione”. Il disegno di legge di Bilancio prevede 6 miliardi aggiuntivi su tre anni al settore, soprattutto per i contratti di formazione specialistica dei medici, per le misure previste dal Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu) e per l’acquisto di vaccini anti-Covid.

Il potenziamento ed il riassetto della sanità (in particolar modo quella territoriale) potrebbe essere il collante ed il cavallo di battaglia dell’altra triplice, quella del centrodestra. La sintonia tra sindacati e centrodestra potrebbe sembrare un paradosso. Ma troverebbe il supporto di tutti gli italiani.

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