Bruxelles richiama Pechino per le violazioni dei diritti umani ma le diverse commissioni cercavano di avviare canali commerciali: un approccio che non ha funzionato nel passato e che oggi appare impensabile davanti alla stretta di Xi. L’analisi di Stefano Pelaggi, docente presso l’Università di Roma La Sapienza
Nei giorni scorsi il South China Morning Post ha rivelato che la Commissione europea ha rinviato, a tempo indeterminato, l’annuncio di un nuovo accordo di collaborazione economico e commerciale con Taiwan.
I rapporti Bruxelles-Taipei erano cresciuti di visibilità in maniera inaspettata negli ultimi mesi e al Parlamento europeo si era iniziato a parlare con più insistenza di Taiwan. Questa era già una notizia di per sé. Poi la risoluzione a ottobre con la richiesta di “intensificare le relazioni politiche Union europea-Taiwan” oltre che di un accordo di investimento bilaterale e per finire la prima visita ufficiale di una delegazione del Parlamento europeo nell’isola. I membri della nutrita delegazione, tutti appartenenti alla Commissione del Parlamento europeo sulle interferenze straniere nei processi democratici (Inge), tra cui c’era anche il leghista Marco Dreosto avevano ampiamente sottolineato la necessità di sostenere la vibrante democrazia taiwanese e difendere lo status quo dell’isola.
Concetti e termini del tutto inediti per la cauta diplomazia europea, che hanno destato preoccupazione a Pechino. Il rinvio a data da destinarsi, ossia un chiaro passo indietro, su un formato strategico economico con Taipei non ha sorpreso gli osservatori più attenti.
Lo spettro che aleggia sulle recenti vicende tra Taipei e Bruxelles è il congelamento, anche questo a tempo indeterminato, del “Comprehensive Agreement on Investment” (Cai). Ossia l’accordo bilaterale per gli investimenti tra l’Unione europea e la Repubblica Popolare cinese, annunciato negli ultimi giorni del 2020. Un accordo molto importante e lungamente atteso dalle tante imprese europee con interessi in Cina. Il Cai avrebbe garantito un’apertura, parziale e vincolata da norme specifiche, del mercato cinese alle imprese dei Paesi membri dell’Unione europea. Ossia l’unico obiettivo dichiarato che Bruxelles ha sempre cercato nel rapporto con Pechino: la reciprocità. Un termine che è diventato un vero e proprio mantra e che ha condizionato l’approccio dell’Unione europea nei confronti della Repubblica Popolare cinese negli ultimi decenni.
Il nesso tra i due eventi è evidente. Bruxelles ha rincorso a lungo l’idea del Cai e i colloqui durano da almeno otto anni. Chiaramente l’Unione europea è disposta a tutto pur di chiudere l’accordo, una situazione che ricorda da vicino il riconoscimento diplomatico tra la Santa Sede e Pechino.
Gli analisti hanno sottolineato la pericolosa posizione di Taipei, sempre più esposta nella contesa tra Washington e Pechino mentre i riferimenti del Partito comunista cinese alla necessità ineluttabile di riunificazione con l’isola e gli sconfinamenti nella Zona d’identificazione della difesa aerea di Taiwan crescono in maniera esponenziale. La possibilità che Taiwan venga usata come pedina di scambio dai principali attori internazionali è spesso citata. All’indomani della telefonata dell’allora neoeletto Donald Trump alla presidente Tsai Ing-wen la maggior parte degli osservatori citò la possibilità di un uso strumentale della questione taiwanese da parte di Washington. Ma persino l’amministrazione statunitense più divisiva, e più “impulsiva”, dal dopoguerra ha mantenuto fede agli accordi con l’alleato taiwanese. Il destino dell’isola è cruciale per la credibilità di Washington ma soprattutto per la proiezione statunitense nella regione.
La situazione a Bruxelles è diametralmente opposta. L’accordo con Taipei porterebbe dei vantaggi economici e commerciali minori per i Paesi europei ma avrebbe un significato politico molto importante. Ovviamente ci sarebbero delle ripercussioni sui rapporti con Pechino.
Il senatore Roberto Rampi ha commentato a Formiche.net sul rinvio di Bruxelles sottolineando che Taiwan è un attore fondamentale per l’Europa e che il rapporto con Pechino deve necessariamente essere impostato sulla reciprocità. Si tratta di una visione ampiamente condivisa sia dall’opinione pubblica sia da un vasto gruppo trasversale in Parlamento e Senato. Merito anche di un cambiamento nella comunicazione delle istituzioni taiwanesi. Nel ministero degli Esteri di Taipei il motto non ufficiale era “no news about Taiwan is good news”: la diplomazia taiwanese, solitamente estremamente cauta, ha ora trovato una voce assertiva. Molto è cambiato e oggi il ministro Joseph Wu rappresenta una valida alternativa, a livello comunicativo, alla diplomazia dei lupi guerrieri di Pechino.
L’impressione è che gli attori principali, Washington e Pechino, abbiano ben chiari obiettivi e finalità, sia interni sia legati alle modalità di competizione con l’avversario. Mentre Taipei ha sfruttato la situazione, probabilmente aumentando la polarizzazione e rischiando un’esposizione eccessiva, ma trovando degli spazi di proiezione inimmaginabili sino a pochi anni fa.
Il ruolo dell’Unione europea non è ben chiaro, il rinvio dell’accordo con Taipei ricorda la strategia dello scorso decennio. Con le istituzioni di Bruxelles a richiamare Pechino per le violazioni dei diritti umani mentre le diverse commissioni cercavano di avviare canali commerciali con la Repubblica popolare cinese. Un approccio che non ha funzionato nel passato ma che appare impensabile di fronte alla Repubblica popolare cinese che Xi Jinping sta modellando.