Il Wsj rivela gli investimenti di aziende Usa nei semiconduttori “made in China” nonostante le preoccupazioni legate alla sicurezza. Un episodio che racconta molto di una sfida che riguarda anche l’Ue
Sia gli Stati Uniti sia l’Unione europea sanno bene che, nonostante i loro intenti, rischia di non esserci transizione energetica senza la Cina. Per motivi di ordine pratico, come spiegato su Formiche.net. Due esempi: il mercato dei pannelli fotovoltaici a basso costo dipende dal polisilicio prodotto nello Xinjiang; sei delle sette compagnie che producono i pannelli sono cinesi. Il tutto è merito o colpa, a seconda della prospettiva, anche dei sussidi pubblici: sia della Cina sia dei Paesi occidentali, che hanno sostenuto questa tecnologia senza guardare alla provenienza.
Lo stesso si può dire della transizione digitale? Forse sì, a giudicare da una lunga indagine del Wall Street Journal: “Le aziende statunitensi aiutano la Cina a dominare [il settore de]i semiconduttori nonostante le preoccupazioni legate alla sicurezza”. Come? Investendo nella produzione cinese: le società di venture capital, giganti dell’industria dei chip e altri investitori privati hanno partecipato a 58 accordi di investimento con l’industria cinese dei semiconduttori dal 2017 al 2020, più del doppio del numero dei quattro anni precedenti. A rivelarlo è un’analisi della società di ricerca Rhodium Group.
I semiconduttori sono alla base di tutto, ricorda il Journal: dai telefoni cellulari e alle auto, dall’intelligenza artificiale e alle armi nucleari. La pandemia Covid-19 ne ha rafforzato la domanda, cresciuta dal 5-6% al 20%, fino a una carenza globale che ha creato difficoltà a molti settori, a partire da quello dell’automobile. E “l’industria cinese dei semiconduttori è una bolla dovuta alla politica industriale” del governo di Pechino, ha spiegato Thilo Hanemann, partner di Rhodium Group, al Journal. E l’ha fatto sottolineando le statistiche della Semiconductor Industry Association degli Stati Uniti: il numero di nuove aziende cinesi di semiconduttori nate nel 2020 è superiore a 22.000, un aumento del 200% dall’anno precedente.
Tra le aziende al centro dell’indagine del Journal c’è anche Intel, che finanzia Primarius Technologies, società cinese specializzata in strumenti di progettazione di chip. Un caso che preoccupa le autorità americane non soltanto per i dollari che vanno all’estero ma anche perché lo fanno andando a sostenere alternative cinesi in un settore in cui le aziende statunitense sono leader come quello degli strumenti di progettazione di chip. Intel Capital, il ramo venture del colosso, ha replicato spiegando che i suoi investimenti in Cina corrispondono a meno del 10% del suo portafoglio globale.
Ma non è tutto. Il Journal ha scoperto che, oltre a questo, gli uffici cinesi di Sequoia Capital, Lightspeed Venture Partners, Matrix Partners e Redpoint Ventures, tutte società di venture della Silicon Valley, hanno operato almeno 67 investimenti in aziende cinesi del settore dei chip dall’inizio del 2020.
Le rivelazioni sembrano aver messo in allarme diversi attori. Per esempio, un portavoce di MetaX, azienda di Shanghai in cui ha investito Sequoia Capital, non ha risposto alle domande ma ha chiesto al quotidiano di rimuovere ogni riferimento all’azienda e all’amministratore delegato dall’articolo. Nei mesi scorsi il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha dichiarato che che l’amministrazione Biden sta “esaminando l’impatto dei flussi di investimento in uscita dagli Stati Uniti che potrebbero eludere lo spirito dei controlli sulle esportazioni o altrimenti migliorare la capacità tecnologica dei nostri concorrenti in modi che danneggiano la nostra sicurezza nazionale”.
Al Congresso c’è una proposta di legge bipartisan per dare una stretta sugli investimenti in uscita dagli Stati Uniti e l’offshoring di catene di approvvigionamento critiche e risorse dell’industria tecnologica verso Paesi avversari come la Cina e la Russia. Si tratta di un rafforzamento dei controlli tramite un comitato interagenzie che copra quei casi che esulano dai controlli sulle esportazioni e dal Comitato per gli investimenti esteri negli Stati Uniti (Cfius).
Sulla proposta di legge, però, c’è la netta opposizione di alcune lobby tra cui la U.S. Chamber of Commerce e lo U.S.-China Business Council. Un portavoce di quest’ultimo ha spiegato al Journal che “la regolamentazione del flusso di capitale in uscita è senza precedenti in 250 anni di storia americana” e che gli attuali controlli sulle esportazioni sono sufficienti a proteggere la sicurezza nazionale.
Oltre un anno fa, quando ancora alla Casa Bianca c’era Donald Trump, Jeremy Mark scriveva per l’Atlantic Council un’approfondita analisi della stretta statunitense sul settore high-tech cinese. “Anche se il decoupling non diventasse una politica a lungo termine, le interruzioni della catena di approvvigionamento manderebbe in fumo anni di lavoro e grandi somme di denaro”, spiegava riferendosi al settore dei semiconduttori. “Senza uno sforzo globale su scala nazionale per continuare a sviluppare capacità di semiconduttori all’avanguardia, gli Stati Uniti si affideranno alle catene di fornitura globali – e alla Cina – per molti anni a venire, mentre le aziende dovranno sostenere i costi della perturbazione del mercato globale”, osservava ancora.
La risposta dell’amministrazione Biden alle aziende potrebbe arrivare con l’allargamento della legge sull’innovazione e la concorrenza considerata da molti anti Cina (Usica) e il National Defense Authorization Act (Ndaa) di quest’anno. O piuttosto con il Chips Act, che più che mettere nel mirino un avversario, mette sul piatto 52 miliardi di dollari. D’altronde, come ha fotografato un recente rapporto della società di consulenza strategica Kearney, “gli incentivi governativi continuano a giocare un ruolo decisivo nell’attrarre e mantenere la capacità di produzione di semiconduttori in una regione”. Un messaggio che riguarda anche l’Unione europea che, secondo lo stesso documento, ha bisogno allo stesso tempo di investire nel settore e di rafforzare la collaborazione con l’americana Intel, la sudcoreana Samsung e la taiwanese Tsmc.