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Vent’anni dopo, Caligiuri spiega com’è cambiata l’intelligence dall’11 settembre

L’intelligence deve difendere la democrazia italiana da sé stessa e dalle sue degenerazioni, perché la crisi della democrazia, come il sonno della ragione, genera mostri. L’analisi di Mario Caligiuri, presidente della Società italiana di intelligence

Le vicende dell’11 settembre vennero considerate come il fallimento internazionale dell’intelligence. A vent’anni da quegli accadimenti sarebbe opportuno riflettere su come è cambiato il mondo e con esso l’intelligence. Tanto più che in occasione della pandemia e del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan sono state ripetute le identiche affermazioni sulle insufficienze dei Servizi, ma in entrambi i casi le previsioni c’erano state. Come spesso accade il problema è l’utilizzo che viene fatto delle informazioni da parte delle classi politiche, dalle quali i Servizi dipendono. È bene ricordare quanto scriveva Robert D. Steele: “Una buona intelligence non serve in presenza di una cattiva politica”.

Va evidenziato che esattamente due mesi dopo gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono, la Cina è entrata a fare parte dell’organizzazione mondiale per il commercio, dopo 15 anni di negoziati. Da allora l’economia globale ha subito un’accelerazione formidabile.

Fino a quel periodo l’intelligence era orientata in modo rilevante proprio sullo spionaggio economico e a riguardo sono emblematiche le vicende di Echelon, Successivamente invece è stata indirizzata alla lotta contro il terrore, mettendo in luce contraddizioni ma soprattutto sottovalutando l’impatto che avrebbe determinato l’entrata della Cina nel mercato globale.

Il Patriot Act emanato nell’immediatezza da George W. Bush limitò le libertà dei cittadini, ponendo il problema spinoso di conciliarle con la sicurezza, un tema che sta caratterizzando questo inizio del XXI secolo e che la diffusione del Covid 19 ripropone in tutta la sua complessità.

Inoltre le informazioni per prevenire gli attentati c’erano ma sono state sottovalutate, tradotte successivamente, non scambiate: lo ha dimostrato la 9/11 Commission, istituita dal Congresso americano. Le conclusioni della Commissione hanno messo in evidenza i limiti della raccolta delle informazioni in modo massivo tramite le tecnologie e le croniche difficoltà di collaborazione tra le agenzie, innanzi tutto tra Cia e Fbi.

L’intelligence venne quindi chiamata a giustificare le decisioni politiche ispirate dalla dottrina dell’esportazione della democrazia. E dopo l’invasione dell’Afghanistan, avvenuta meno di un mese dopo gli attentati di Al Qaeda, si profilava quella dell’Iraq.
Secondo i governanti americani, questa azione era necessaria perché Saddam Hussein poteva disporre di armi di distruzione di massa che potevano rappresentare una minaccia alla pace. Infatti, proprio una settimana dopo l’11 settembre si sono verificati gli attacchi all’antrace, che hanno provocato la morte di 5 persone e l’avvelenamento di altre 17.

È importante rievocare questo passaggio, spesso trascurato. Di queste vicende è stato imputato il biologo Bruce Edwards Ivins, che lavorava presso l’Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito degli Stati Uniti a Fort Detrick, il più importante centro americano per la ricerca sulla guerra biologica. Dal 2005 cominciò a essere sospettato di essere l’autore dell’invio dei pacchi all’antrace e nel 2008 venne ufficialmente incriminato. Dopo appena un mese, il 29 luglio, morì in seguito a un’overdose di tranquillanti. Nel 2010 l’Fbi ha chiuso le indagini considerando Ivins l’unico possibile responsabile degli attentati.

L’intelligence venne quindi incaricata di verificare il potenziale delle armi chimiche in possesso del ràis iracheno. Le Agenzie americane non trovarono prove significative mentre quelle inglesi predisposero un dossier dal quale risultava l’esistenza di pericolosi arsenali. Sulla base principalmente di queste informazioni, il segretario di Stato americano Colin Powell, in un celebre discorso all’Onu del 5 febbraio 2003, argomentò l’esistenza delle armi di distruzione di massa per giustificare l’intervento militare. L’Iraq venne quindi invaso il mese successivo. Dopo poche settimane la Bbc mandò in onda un programma in cui venivano messe in discussione le prove fornite dall’intelligence britannica, riportando le informazioni confidenziali dell’esperto di biotecnologie David Kelly. Seguirono vivaci polemiche con la costituzione di una commissione di inchiesta presieduta da Lord Hutton, che censurò l’emittente radio-televisiva.
Kelly, che nel frattempo era stato individuato come la fonte riservata delle notizie, venne rinvenuto suicida il 17 luglio del 2003. Una commissione sull’11 settembre presieduta da lord Chilcot nel 2009 ascoltò Tony Blair, all’epoca dei fatti capo del governo, il quale ammise che le prove di intelligence esibite per dichiarare la guerra erano false. Un’ammissione ovvia, poiché le armi, a lungo ricercate, non erano state mai trovate.
Quindi le informazioni d’intelligence sono state utilizzate per giustificare una decisione politica, che ha condizionato fortemente l’ordine mondiale e che, secondo alcuni, ha provocato l’ondata del terrorismo fondamentalista in Europa.

E mentre, con enormi sforzi economici ed umani, gli Stati Uniti e i loro alleati erano impegnati sui fronti dell’Asia centrale, la Cina organizzava le sue politiche di potenza culminate nella strategia della Nuova via della seta che è stata inserita in Costituzione, insieme all’elezione potenzialmente a vita di Xi Jinping.

Contemporaneamente la new economy ha rivoluzionato il pianeta, con il ruolo sempre più insostituibile di internet nelle attività lavorative e finanziarie. Una diffusione così pervasiva tanto che il web è diventato il quinto dominio della guerra, dopo la terra, il mare, l’aria e lo spazio, modificando anche la natura dei conflitti che sono diventati prevalentemente economici e culturali e combattuti attraverso le informazioni nella Rete. Grande rilevanza quindi ha assunto l’infowar, così come la guerra psicologica e anche quella normativa, poco nota ma insidiosissima.

Occorrerà attendere gli attentati terroristici in Europa del 2015-2017 per fare orientare l’intelligence in modo diverso. C’è una data precisa ed è il 7 gennaio 2015, giorno dell’attentato alla redazione della rivista parigina “Charlie Hebdo”, dopo il quale telegiornali e quotidiani fanno riferimento continuo alla parola “intelligence”, quasi ad identificarla come l’arma segreta per difendere le democrazie dal terrore. Da allora si è verificata una grande trasformazione nella percezione dell’intelligence da parte della pubblica opinione: da luogo oscuro di uno Stato parallelo a ruolo vitale per la democrazia, da funzione di previsione del futuro a quella di interpretazione del presente, da ambito esoterico per pochi a strumento indispensabile per tutti.

Le agenzie dei Servizi oggi si stanno giustamente concentrando sul cyber e sull’intelligenza artificiale. Non a caso nel 2017 Vladimir Putin ha affermato che chi controlla l’intelligenza artificiale controlla il mondo, gli Emirati Arabi hanno istituto un apposito ministero e la Cina ha lanciato un imponente programma con l’obiettivo di diventare entro il 2030 il paese leader nel settore.

Le vicende afghane e irachene, e prima ancora quelle vietnamite e cambogiane, richiamano l’attenzione sulla necessità di una Cultural intelligence, intesa come capacità di comprensione delle regole sociali e dei contesti culturali dei luoghi dove si svolgono le attività belliche.

Parallelamente, la guerra culturale è da tempo in atto. La cultura non è altro che la visione del mondo e le visioni del mondo dei cittadini di ogni nazione sono largamente influenzate dai contenuti cinematografici, televisivi e informatici prodotti dagli Stati Uniti d’America, che a livello scientifico esprimono un predominio evidenziato dal numero dei premi Nobel, dalla capacità attrattiva a livello mondiale delle sue università e dal vantaggio differenziale che riesce a mantenere in gran parte sul web.

In tale contesto, si è già profilato, secondo me, il nuovo campo di battaglia su cui si misurerà l’ordine mondiale: la conquista delle menti. Con la quasi totalità del pianeta collegato a internet entro il 2030, potenzialmente ciascuno di noi potrà essere profilato e quindi orientato. Quello della mente è il dominio geopolitico dell’immediato futuro e la società della sorveglianza potrebbe non avere più limiti, dando vita, come prevede Yuval Noah Harari, potenzialmente a due distinte razze umane: una ristretta minoranza che controlla l’intelligenza artificiale e le moltitudini che ne saranno guidate.

In tale quadro, com’è cambiata l’Italia in questi ultimi vent’anni? La cifra principale potrebbe essere considerata la decadenza della sfera pubblica, con un ruolo sempre più preponderante delle tecnologie anche nella formazione del consenso. Infatti, strumenti come la “piattaforma Rousseau” oppure “la Bestia” di Luca Morisi hanno determinato successi elettorali consistenti. Ma si tratta di intelligenza artificiale, non di politica.

Sul versante dell’intelligence, il nostro è stato l’unico Paese che dopo gli attentati dell’11 settembre ha sostituito i vertici dei Servizi. Al 2007 risale la riforma dell’intelligence, accentrando le competenze nella figura del presidente del Consiglio, rafforzando il ruolo del Dis e prevedendo le garanzie funzionali per gli operatori.

Negli anni successivi, ai Servizi sono stati assegnati compiti molto importanti sulla sicurezza cibernetica, fino alla costituzione proprio quest’anno di un’apposita agenzia, affidata a Roberto Baldoni, un professore universitario, che in precedenza era stato anche vice direttore del Dis, primo e felice esempio di coinvolgimento di esperti accademici nel delicato settore della sicurezza nazionale.

Il crollo economico del 2008, originato dal fallimento della Lehman Brothers, ha messo in evidenza anche da noi come le classi dirigenti abbiano generalmente interpretato la crisi come opportunità per loro stessi piuttosto che come problema dei cittadini.

Comportamento replicato nelle recenti vicende pandemiche, che hanno posto in luce le inadeguatezze delle regioni e dell’organizzazione istituzionale, tanto che i Servizi si sono dovuti occupare anche dell’attendibilità dei dati dei contagi e della somministrazione dei vaccini.

E abbiamo dovuto contrastare lo sharp power, le azioni di influenza informativa e di manipolazione della pubblica opinione, che nel nostro Paese sono state svolte nella prima fase della pandemia si dalla Cina che la Russia, la quale è stata anche coinvolta nel caso di spionaggio che ha visto protagonista l’ufficiale della marina Walter Biot, segnale che queste antiche pratiche sono più attuali che mai.

Si è reso necessario definire il golden power per tutelare i settori strategici nazionali, di fronte ad azioni di acquisizioni da parte di altri Stati e di infiltrazioni delle organizzazioni criminali, che rappresentano un pericolo sempre maggiore, in quanto controllano quasi per intero alcuni settori economici.

Altra tendenza che si è manifestata è l’indebolimento dell’istruzione e quindi della capacità cognitiva delle persone, che da un lato deve fare riflettere sulla natura della democrazia in Italia e dall’altro ci rende molto esposti alla battaglia in atto sul controllo delle menti, che riguarda sia i cittadini che le élite, le prime attraverso la propaganda e le seconde attraverso le azioni di deception che provengono dall’estero o di inclusione in meccanismi di potere internazionale.

In questo secolo l’efficienza dei sistemi di governo farà la differenza, poiché la globalizzazione richiede decisioni pubbliche sempre più veloci ed efficaci. L’Italia, quindi, si trova in evidente difficoltà con classi dirigenti deboli e cittadini poco istruiti, riducendo quindi il sistema democratico a una banale procedura elettorale, privandolo così di un reale significato.

Il nostro è uno dei paesi fondatori dell’Unione Europea. Recentemente Ursula Von der Leyen ha dichiarato che se gli Stati non condividono le loro informazioni a livello europeo siamo destinati a fallire. Sono quindi maturi i tempi per un’intelligence europea? Purtroppo è improbabile in assenza di un governo europeo.

Questo pone il problema decisivo se l’Europa sarà in grado di trasformarsi da gigante economico in potenza politica, poiché l’Italia ne condividerà inevitabilmente il destino.

Dobbiamo quindi porre al centro l’interesse nazionale, il cui perseguimento richiede l’apporto decisivo dell’intelligence. Occorre ripensare alla dimensione marittima del nostro Paese, che si trova nel cuore del Mediterraneo, l’aria di libero scambio più estesa del pianeta.

Cosi come va promosso il nostro ruolo di potenza culturale mondiale e tutelate le piccole e medie imprese che ci consentono di essere la seconda potenza industriale europea. Ma tutto questo non può avvenire senza un radicale miglioramento del sistema dell’istruzione, che, dal mio punto di vista, rappresenta la priorità nazionale insieme al contrasto alle mafie, che stanno diventando indistinguibili dall’economia e, in parte, dalla politica.

In definitiva, l’intelligence deve difendere la democrazia italiana da sé stessa e dalle sue degenerazioni, perché la crisi della democrazia, come il sonno della ragione, genera mostri.

Allora va ribadita l’importanza delle élite, poiché ogni organizzazione sociale funziona in relazione a chi la gestisce e la rappresenta, circostanza essenziale per le istituzioni pubbliche. Pertanto è fondamentale il ruolo che la politica assegnerà all’intelligence, aggiornando le regole e individuando meccanismi efficaci nella selezione, controllo e direzione degli operatori.

Negli ultimi anni, nel nostro Paese più volte si è adombrato il rischio di un pericolo fascista. Dal mio punto di vista, è impossibile una riedizione originaria di quella tragica pagina storica. Esiste però molto di peggio e cioè molte di quelle condizioni che nel 1922 hanno reso possibile la marcia su Roma: la crisi della democrazia italiana.
Il fascismo venne definito da Piero Gobetti “L’autobiografia della nazione” e l’intelligence potrebbe contribuire a evitare che, nelle forme nuove della società digitale, le degenerazioni possano ripetersi. L’intelligence nell’Italia dei primi decenni del XXI secolo andrebbe dunque concepita come indispensabile strumento della democrazia.


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