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Perché le aziende hanno bisogno di leader gentili

Di Mario Suglia

La leadership gentile nelle aziende diventa leadership collaborativa. Abbiamo scoperto l’importanza della relazione, proprio quando ci è venuta meno la fisicità e la prossimità. L’intervento di Mario Suglia, general manager di Inarea

Potremmo dire che tutto è cominciato con un elefante. Probabilmente una mamma elefante. E con la sua spinta “gentile” al piccolo – si fa per dire: appena nato è già un quintale – magari usando la proboscide, per suggerirgli il cammino giusto, le abitudini sociali, uno stimolo a decidere, senza perdere tempo. Soprattutto per evitare che il piccolo elefantino, se mai avesse coscienza, potesse dire: perché mi tratti male?

La domanda è quella che si pone Guido Stratta, direttore Risorse Umane di Enel, quando parla del suo libro “Ri-evoluzione. Il potere della leadership gentile”, scritto a quattro mani con la psicoterapeuta Bianca Straniero Sergio (Franco Angeli editore). Una domanda che si è fatto spesso all’inizio della sua carriera e che ha sentito ripetere spesso da qualche suo più giovane collega, quando ha a che fare con il suo “superiore”.

Il machismo aziendale dovrebbe essere messo in soffitta, proprio quando ci ispiriamo ai pachidermi. L’immagine della mamma elefante e del suo piccolo è quella che ci è rimasta nella memoria sulla copertina di “Nudge” (la spinta gentile, appunto), pubblicato nel 2008 da Richard Thaler e Cass R. Sunstein. L’economia comportamentale ha rotto l’argine delle abitudini gerarchiche e assertive che a lungo sono sembrate l’unico modo per organizzare il lavoro e per dirigerlo.

È la consapevolezza della fallibilità – l’economia comportamentale di Thaler si basa proprio sulla “razionalità limitata” del decisore – che ci deve rendere più gentili. Stratta ci tiene a dire – nel suo libro e nelle conferenze, quasi sempre webinar, in quest’ultimo anno e mezzo, ovviamente – la gentilezza di cui parla e che vuole attribuire alla nuova leadership non ha nulla a che vedere con il Galateo, né con la biologia (nel senso della più o meno naturale propensione individuale alla cordialità e alla cortesia). La leadership gentile è una scelta. Una scelta intelligente, cioè conveniente. Sembra una scoperta della post-pandemia, quando abbiamo dovuto adeguarci ai rapporti distanziati, in qualche modo più rarefatti, dove lo scatto d’ira – la porta sbattuta o la voce che si alza di due ottave – è meno praticabile e anche meno efficace.

Nei rapporti “a distanza” prevale una lentezza apparente, che premia la gentilezza; la scelta di non esasperare, anzi, di favorire la comprensione già minata da una comunicazione che ha dovuto fare a meno di molta comunicazione non verbale. Meno istinto e più pensiero. Ci vuole un po’ più di tempo per ascoltare, e il tempo impone scelte più morbide, più cariche di “energia positiva” come dicono gli autori.
Nel tempo della riscoperta sostenibilità – ambientale, sociale, organizzativa – anche le relazioni tra persone che lavorano insieme ritornano centrali, proprio se sostenibili. Anche psicologicamente. La relazione fa e farà sempre più la differenza. Senza andare agli estremi di Johan Huizinga – il grande storico del Medioevo sosteneva che l’amicizia costituiva la grande differenza nelle relazioni tra regnanti e governanti – si può ben dire che nel tempo del post-Covid la relazione diventa fondamentale nei rapporti tra collaboratori. Bisogna competere ferocemente con sé stessi, ma collaborare sempre con tutti gli altri.

La leadership gentile nelle aziende diventa leadership collaborativa. Abbiamo scoperto l’importanza della relazione, proprio quando ci è venuta meno la fisicità e la prossimità. Abbiamo scoperto il contatto quando abbiamo dovuto re-inventarlo oltre lo schermo di un pc. La gentilezza è il tratto della relazione riscoperta nella sua essenzialità. La relazione – tra persone, tra brand e consumatori, tra brand e stakeholder, tra imprese e comunità territoriali – è sempre più forte. Quindi richiede cura, attenzione, gentilezza, appunto. E bellezza.
E’ il destino del design. Il design è rappresentazione dell’essenza, dell’anima un tempo dell’oggetto e ora della relazione. È la rappresentazione in una dimensione di processo e quindi di continuo divenire.

In questo quadro, posto in essere dall’avvento digitale, il brand design coniuga dimensioni materiali e immateriali ridefinendo in chiave contemporanea il senso di comunità. È un processo molto più articolato, che investe qualsiasi cosa e recupera l’accezione valoriale quale punto di congiunzione tra chi propone e chi sceglie, secondo logiche improntate a una logica di dialogo. Per questo oggi, il brand svolge un ruolo molto importante. In un periodo di crisi, molte aziende stanno guardando al futuro con la voglia di rimettersi in discussione. Si stanno ridisegnando, stanno dando sempre più importanza ai propri valori, stanno riscoprendo la loro identità. Ed è proprio qui che interviene il brand: dare rappresentazione dell’idea di futuro, dei valori, delle aspirazioni.

Il brand disegna le relazioni tra l’azienda e i suoi stakeholder, e tra tutti i collaboratori interni, e, come mamma elefante, dà la spinta gentile per fare dell’azienda un leader… gentile.

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