Secondo l’esperto francese l’episodio del produttore friulano di droni, il cui passaggio “opaco” in mani cinesi è sotto indagine del governo, deve rappresentare “una svolta”, l’Europa deve capire di dover agire per tutelare le tecnologie strategiche. E mette in guardia su una grande ipocrisia del sistema attuale
Sulla tecnologia e il rapporto con la Cina, l’Unione europea ha bisogno di una svolta in termini di consapevolezza della necessità di agire. E il caso Alpi Aviation può essere un punto di svolta. Ne è convinto Antoine Bondaz, ricercatore della Fondation pour la Recherche Stratégique di Parigi e professore associato a Sciences Po.
Il governo Draghi ha puntato i fari del comitato che si occupa di golden power sull’azienda friulana produttrice di droni e con rapporti con il ministro della Difesa che tre anni fa è passata, attraverso una società offshore, nelle mani di due società statuali cinesi con “modalità opache” secondo la Guardia di finanza. Le Fiamme Gialle hanno contestato due violazioni a settembre: della legge 185/1990, che disciplina l’export di armamenti, e del cosiddetto Golden power per violazione dell’obbligo di notifica del passaggio di proprietà.
Bondaz ricorda un caso simile, quello del gioiello tedesco della robotica Kuka. Alpi Aviation può essere un campanello d’allarme sull’importanza di proteggere il nostro potenziale scientifico e tecnologico, dice.
Come farlo?
Gli europei devono essere consapevoli delle loro risorse, e in particolare del fatto che la Cina è oggi molto dipendente da diverse tecnologie europee. Tuttavia, se la cooperazione con la Cina è necessaria, lo è anche proteggere il potenziale scientifico e tecnologico dei Paesi europei, che tutti dovrebbero fare. La posta in gioco è duplice, in termini di competitività economica e di sicurezza nazionale. Gli Stati membri mancano di competenza ed esperienza, e non hanno le risorse umane e finanziarie per investire in modo massiccio. È anche controproducente all’interno di un’Unione che tutti facciano la stessa cosa. Dobbiamo quindi imparare a cooperare di più e a unire le nostre forze con iniziative di collaborazione.
Il caso Alpi Aviation può davvero rappresentare un punto di svolta nelle relazioni tra Unione europea e Cina?
Non so se è un punto di svolta, ma spero che lo sia. Una svolta almeno in termini di consapevolezza della necessità di agire. Questo caso, che purtroppo non è isolato, dovrebbe rendere i leader europei consapevoli del fatto che le autorità politiche cinesi stanno cercando di acquisire tecnologie sensibili in modo discreto, a volte nascosto. Più in generale, dobbiamo anche porre fine alla nostra ipocrisia, che consiste nell’attuare, in modo più o meno rigoroso, un embargo sulle armi nei confronti della Cina, ma addestrando gli ingegneri di armi cinesi e trasferendo tecnologie. Forse non stiamo esportando i sistemi di armi, ma stiamo esportando certe conoscenze indispensabili per la loro produzione.
Ferme restando le gelosie degli Stati membri su certe materie, una struttura europea di condivisione dell’intelligence potrebbe essere utile?
Condividere informazioni, anche di intelligence, è essenziale. Ma ciò non viene necessariamente fatto dalle agenzie di intelligence. Uno dei principali problemi degli Stati membri è la difficoltà di identificare i partner cinesi, sia quando si tratta di controlli sulle esportazioni sia quando si tratta di verificare la cooperazione scientifica. Un primo passo sarebbe, quindi, condividere una sorta di cartografia degli attori cinesi, e soprattutto la loro reale affiliazione, soprattutto quelli legati all’Esercito popolare di liberazione o al settore della difesa. Questo può essere fatto in tutta trasparenza, perché è soprattutto la mancanza di conoscenza che avvantaggia la Cina.
L’accordo sugli investimenti con la Cina (Cai), raggiunto un anno fa dalla Commissione europea ma congelato dopo le proteste del Parlamento europeo, rappresenta una minaccia al nostro potenziale scientifico e tecnologico?
Il Cai in sé non è una minaccia, così come non lo è il commercio con la Cina. La minaccia viene soprattutto dalla nostra incapacità di prendere in considerazione i rischi e dall’assenza di un meccanismo capace di farlo. Come tutti i Paesi, quelli europei devono proteggere le tecnologie che considerano sensibili per ragioni economiche o di sicurezza. Se non lo fanno, non solo non saranno attori geopolitici, ma nemmeno attori geoeconomici.