Tra democristiani e comunisti è stata una sfida tra istinti collaborativi e pulsioni di lotta. Ovvero tra il tentativo dei gruppi dirigenti di parlarsi e qualche volta perfino di collaborare e la contrarietà del loro retroterra ad acconsentire a consigli tanto miti. L’analisi di Marco Follini, giornalista e già vicepresidente del Consiglio, alla luce del romanzo di Gianluca Calvosa, Il Tesoriere
*Articolo pubblicato sul numero di novembre della rivista Formiche
Tra piazza del Gesù, sede della Democrazia cristiana, e via delle Botteghe oscure, sede del Partito comunista italiano, correvano pochi metri, sì e no un centinaio. E correva però, tra quei due partitoni, un abisso scavato dalle differenze politiche, dal sentimento popolare, dalla storia e dai suoi umori. I dirigenti si parlavano, con circospezione, e si combattevano, con circospezione ancora maggiore. Mentre i loro elettori si facevano a vicenda il viso dell’arme. Potrebbe essere raccontata così, per sommi capi (molto sommi, a dire il vero) la lunga altalena dei rapporti tra democristiani e comunisti in tutto il dopoguerra e segnatamente nei turbolenti anni Settanta del secolo scorso. Raccontata cioè come una sfida tra istinti collaborativi e pulsioni di lotta.
Ovvero tra il tentativo dei gruppi dirigenti di parlarsi e qualche volta perfino di collaborare e la contrarietà del loro retroterra ad acconsentire a consigli tanto miti. In questo racconto (che trova un riscontro prezioso nel libro di Gianluca Calvosa, Il tesoriere) c’è molto delle virtù della Prima repubblica e forse anche qualcuno dei vizi che ne hanno determinato l’epilogo.
Verso la fine degli anni 70, in effetti, sia i democristiani sia i comunisti cercarono di gettare un ponte sopra quell’abisso. Un po’ era la necessità del momento, dato che la Dc non aveva più i numeri per governare da sola e il Pci non aveva ancora il credito internazionale per andare al governo. E un po’ era anche l’idea che tali e tanti erano diventati i loro nemici che era arrivato il momento di resistere insieme, per quanto possibile, a quell’assedio. Nacque così la solidarietà nazionale, epilogo breve, brevissimo, di un lungo cammino destinato a spezzarsi di lì a poco.
Le cronache di quegli anni raccontano in modo impietoso come quel tentativo venne archiviato in quattro e quattr’otto all’indomani del rapimento di Aldo Moro. Fatto sta che nel volgere di pochissimi mesi la Dc tornò al dialogo con i socialisti in chiave anticomunista e il Pci si volse a un’opposizione molto più radicale di quella condotta fin lì.
Due percorsi che ognuno dei due protagonisti, chiamiamoli così, ha sempre spiegato dando la colpa all’altro, per scoprire che si erano capiti meglio quando erano lontani e avevano smesso d’intendersi non appena si erano avvicinati. Il fatto è che proprio su quel loro incontro democristiani e comunisti avevano visioni diverse. E soprattutto diverse erano le visioni dei due leader che lo avevano propiziato: Moro e Berlinguer.
Moro immaginava infatti che Dc e Pci si legittimassero a vicenda attraverso una breve, brevissima fase di collaborazione governativa. All’indomani di questo reciproco riconoscimento i due partiti si sarebbero sfidati in una campagna elettorale fondata su di una civile e non drammatica contrapposizione. Una sorta di nuovo 18 aprile, come nel ‘48, senza però quei veleni, quelle asprezze, quella sorta di reciproca idiosincrasia che aveva segnato l’immediato dopoguerra. Per Moro si trattava insomma di fare come negli altri Paesi europei, dove l’antagonismo tra democristiani e socialisti, o tra laburisti e conservatori, metteva in moto un salutare processo di ricambio dei partiti al potere senza che ne discendesse una sorta di apocalittica contrapposizione ideologica.
Berlinguer probabilmente aveva invece una visione diversa. E cioè dal suo punto di vista si poteva, si doveva, rompere con l’Urss, archiviare il socialismo reale, collaborare con l’avversario democristiano e così via, ma solo a patto che questa novità politica assumesse un rilievo “storico”, che fosse destinata ad aprire un orizzonte inedito e a valorizzare proprio quella diversità di cui il Pci s’era fatto interprete.
Diversità dal resto della politica italiana, per un verso. E diversità dal modello sovietico per un altro. Ne discendevano due posizioni quasi antitetiche rispetto al tema che sarebbe stato detto poi del cosiddetto consociativismo. Uno spettro per Moro e probabilmente una suggestione per Berlinguer. La leggenda degli anni seguenti ci avrebbe descritto Moro e Berlinguer vicini l’uno all’altro, a pochi metri, quei pochi metri che separavano le sedi dei loro partiti. Mentre forse ad accomunarli era ancora quell’abisso che divideva i loro mondi. Un abisso che tutti e due guardavano con infinito riguardo l’uno per l’altro.