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Governo-sindacati, nostalgia del patto di San Tommaso

Occorre chiedersi perché il “metodo per governare” – a cui di recente, oltre alle parti sociali si è richiamato anche il segretario del Partito democratico, Enrico Letta – ha retto una stagione sola (ma ben di circa sette anni) ed è, poi, caduto in disuso. Ciò è necessario per comprendere quali sono le possibilità, prima ancora delle probabilità, che venga di nuovo adottato

Nei commenti dei sindacati confederali e della Confindustria, quanta nostalgia di San Tommaso, o meglio del patto concluso tra una cinquantina di soggetti il 3 luglio 1993, giorno in cui si ricorda il nome del Santo che, per credere, voleva toccare con mano! Ve lo ricordate?

È stato concluso dopo due anni di conflitti tra sindacati e Confindustria, due anni di scontri seguiti alla decisione dell’associazione degli industriali di dare disdetta alla scala mobile, il meccanismo che adeguava automaticamente il salario all’inflazione. L’accordo, o patto di San Tommaso, sanciva il criterio della concertazione tra le parti sociali e dà nuove linee alla politica dei redditi. Protagonisti di quell’accordo furono Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio, e Gino Giugni, ministro del Lavoro. I sindacati erano rappresentati da Bruno Trentin, Sergio D’Antoni e Piero Larizza. Luigi Abete per la Confindustria. Carlo Azeglio Ciampi pubblicò successivamente un libro (Un metodo per governare, Il Mulino 1996), con la collaborazione di Paolo Peluffo (ora presidente di Sezione della Corte dei Conti) che lo affiancò per circa vent’anni, in cui veniva indicata “la concertazione” come il modo per governare una società complessa.

Nella visione della “concertazione” di Ciampi, le parti sociali non siedono nel Consiglio dei ministri ma sono parte integrante del processo di formazione delle politiche pubbliche e il governo cerca di condividere con esse momenti essenziali della loro formulazione, di cui la definizione del disegno di legge di bilancio è uno dei più importanti.

L’accordo del luglio 1993 era molto dettagliato e fissava le regole per incontri governo- parti sociali in vari momenti dell’anno legislativo. Entrava nelle specifiche della contrattazione collettiva definendo un modello contrattuale articolato su due livelli: il contratto nazionale e quello integrativo aziendale o territoriale.

In pratica, le consultazioni governo-parti sociali si tennero più o meno regolarmente sino a circa il 1998, ma divennero sempre più affollate (in una si contarono circa settanta soggetti) e sempre meno pregnanti e “concludenti”. L’accordo sulla contrattazione collettiva resse per poco più di un lustro, anche se i contratti territoriali non decollarono mai.

Occorre chiedersi perché il “metodo per governare” – a cui di recente, oltre alle parti sociali si è richiamato anche il segretario del Partito democratico, Enrico Letta – ha retto una stagione sola (ma ben di circa sette anni) ed è, poi, caduto in disuso. Ciò è necessario per comprendere quali sono le possibilità, prima ancora delle probabilità, che venga di nuovo adottato.

Il “metodo per governare” di Ciampi aveva una visione a medio termine che aveva più di un punto di contatto con “la nota aggiuntiva” di Ugo La Malfa del 22 febbraio 1962. Il cattolico Ciampi ed in laico La Malfa avevano molti punti in comune le cui radici possono trovarsi nella cultura della breve ma intensa esperienza del Partito d’Azione. La visione della “nota aggiuntiva di Ugo La Malfa” era quella dell’affrontare e risolvere i problemi strutturali del Paese, a cominciare dal divario tra Sud e Centro-Nord. Quella di Ciampi, da sempre limpido europeista, era quella di fare sì che l’Italia facesse parte del gruppo di testa dell’unione monetaria. L’obiettivo del primo non fu raggiunto (anche perché le indicazioni della “nota aggiuntiva” non divennero obiettivo della politica e la strategia indicata non venne, quindi, attuata). L’obiettivo del secondo venne, invece, centrato anche se a ragione della trasformazione del sistema a motivo di quella che venne chiamata “tangentopoli”, le politiche pubbliche non ne colsero i frutti, a cominciare da quelli associati alla riduzione dei tassi d’interesse.

Oggi la visione a medio termine dovrebbe essere quella delineata dall’Economic Outlook intitolato A Balancing Act – diramato dall’Ocse il 30 novembre: rendere più equilibrata la ripresa mondiale con politiche economiche “forti” ma flessibili, affrontando le sfide della nuova ondata del virus ed i vincoli dai lati dell’offerta nonché i sussulti inflazionistici. Politiche economiche “forti” e flessibili per affrontare una fase economica in cui domina l’incertezza più che il rischio (si rilegga il libro di Avinash Dixit e Robert Pindyck del 1996 o quello mio e di Pasquale Lucio Scandizzo del 2003), richiedono consultazione, piuttosto che concertazione, con le parti sociali nonché ciò che un tempo veniva chiamato “decisionismo” soprattutto se il governo si regge su una larga, anche se litigiosa, maggioranza parlamentare.

È una stagione in cui occorre affidarsi a San Tommaso più che per “fare patti” per comprendere, toccando con mano, le sfide che piombano quasi all’improvviso, come la variante omicron del Covid o l’arrivo in Italia nel primo semestre – ricordato oggi 3 dicembre dal presidente del Consiglio Prof. Mario Draghi – di sei volte il numero di migranti di quanti giunti nel 2019.

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