Bloomberg rivela una falla negli aggiornamenti del software scoperta nel 2012 dall’intelligence australiana e condivisa con gli Usa che l’hanno messa al centro della campagna globale contro l’azienda cinese: c’è lo zampino di Pechino, dicono. Un’altra conferma alle conclusioni del rapporto del Copasir di due anni fa
“Nel 2012, i funzionari dell’intelligence australiana hanno informato le loro controparti statunitensi di aver rilevato una sofisticata intrusione nei sistemi di telecomunicazione del Paese. È iniziato, hanno detto, con un aggiornamento del software da Huawei che è stato caricato con codice malevolo”.
Arriva dall’Australia una prova regina dell’accusa del governo statunitense contro la società cinese Huawei, definita una minaccia per la sicurezza nazionale e contro cui Washington ha avviato ormai da anni una campagna globale per prevenire i rischi di spionaggio per conto del governo di Pechino attraverso le tecnologie 5G dell’azienda. A rivelare la falla è Bloomberg, con un’indagine uscita pochi giorni giorno quella con cui il Washington Post ha pubblicato oltre 100 presentazioni PowerPoint dell’azienda, molte “confidenziali”, sul ruolo delle sue tecnologie nei programmi di sorveglianza del governo cinese (“Huawei non sviluppa né vende sistemi destinati a un gruppo specifico di persone e richiediamo ai nostri partner di rispettare tutte le leggi, i regolamenti e l’etica aziendale applicabili”, ha risposto l’azienda in una dichiarazione).
LA FALLA CHE SI AUTODISTRUGGE
Bloomberg aggiunge poi un elemento decisivo: la falla si è autodistrutta in pochi giorni per non lasciare traccia. Questo ha spinto le agenzie d’intelligence a puntare il dito contro il governo cinese.
“La violazione e la successiva condivisione dell’intelligence è stata confermata da quasi due dozzine di ex funzionari della sicurezza nazionale che hanno ricevuto briefing sulla questione dalle agenzie australiane e statunitensi dal 2012 al 2019”, continua Bloomberg. “L’incidente ha corroborato i sospetti in entrambi i Paesi che la Cina abbia usato le apparecchiature Huawei come un canale per lo spionaggio ed è rimasto parte centrale del caso che hanno costruito contro la società cinese, anche se l’esistenza della violazione non è mai stata resa pubblica”.
LE CONFERME
Bloomberg ha ottenuto tre conferme pesanti. Quella di Mike Rogers, ex deputato repubblicano del Michigan che è stato presidente della commissione Intelligence della Camera dei rappresentanti dal 2011 al 2015: ha rifiutato di discutere il caso del 2012 ma ha confermato che i divieti degli Stati Uniti contro Huawei sono stati frutto in parte dalle prove, presentate in privato ai leader mondiali, che la Cina ha manipolato i prodotti dell’azienda attraverso aggiornamenti software malevoli.
Quella di Michèle Flournoy, ex sottosegretario al Pentagono con Barack Obama, oggi alla guida di WestExec, società di consulenza con ottimi rapporti con l’amministrazione di Joe Biden (lì ha lavorato Antony Blinken prima di diventare segretario di Stato). Flournoy ha confermato l’intrusione del 2012 e l’aggiornamento manomesso. “Gli australiani fin dall’inizio sono stati coraggiosi nel condividere le informazioni che avevano, non solo con i canali di intelligence, ma più in generale attraverso canali governativi”, ha detto Flournoy. “L’Australia l’ha vissuto, ma è stato anche un campanello d’allarme indiretto per gli alleati”.
E quella di Keith Krach, ex sottosegretario per lo Sviluppo economico, l’energia e l’ambiente al dipartimento di Stato americano con il presidente Donald Trump. Anche lui ha rifiutato di discutere incidenti specifici ma ha confermato che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno da anni le prove che la Cina ha manipolato le apparecchiature Huawei attraverso gli aggiornamenti del software.
LE RISPOSTE DI HUAWEI E DI PECHINO
Huawei ha respinto le accuse tramite John Suffolk, senior vice president e capo della cybersecurity dell’azienda. In una nota, l’azienda ha poi definito il rapporto di Bloomberg “un impressionante atto di contorsionismo giornalistico” che “inizia con una storia priva di fondamento e “termina con speculazioni gratuite”. “Nonostante le affermazioni di ‘prove’, non è chiaro il motivo per cui le loro fonti non hanno reso pubblica questa storia prima”, sostiene Huawei.
Il ministero degli Esteri cinese ha invece parlato di “calunnie dell’Australia” e ha invitato Canberra “a non abusare della definizione ‘sicurezza nazionale’ e a muovere accuse infondate e pressioni irragionevoli su Huawei e altre aziende cinesi”.
LE TENSIONI AUSTRALIA-CINA
L’Australia è assieme a Stati Uniti, Regno Unito e Svezia tra i Paesi che hanno bandito Huawei dall’infrastruttura 5G (circa 60 Stati, invece, hanno aderito al programma Clean Network del dipartimento di Stato americano impegnandosi a evitare apparecchiature cinesi per i loro sistemi di telecomunicazione). Questi sforzi statunitensi, che sono continuati sotto l’amministrazione Biden e comprendono dure sanzioni contro Huawei, hanno rallentato la crescita di Huawei e aumentato le tensioni con la Cina. Anche tra quest’ultima e l’Australia, sempre più ai ferri corti: basti pensare che è stata Canberra la prima capitale a spingere per un’indagine sull’origine del Covid-19 e che sono arrivate dai giornali canadesi molte rivelazioni sulle attività dell’Istituto di virologia di Wuhan.
L’INDAGINE DEL COPASIR DI DUE ANNI FA
L’indagine Bloomberg appare confermare i sospetti del Copasir, che a dicembre del 2019 aveva concluso la sua indagine sulla sicurezza delle telecomunicazioni invitando il governo italiano a valutare la possibilità di “escludere le predette aziende dalla attività di fornitura di tecnologia per le reti 5G”. Durante le audizione, l’azienda aveva ribadito che “non sussisterebbe una normativa interna che autorizzi entità, agenzie o strutture del governo a indurre i produttori all’installazione di apparati software o hardware”. Ma il Comitato, allora guidato dal leghista Raffaele Volpi (che da qualche mese ha lasciato l’incarico ad Adolfo Urso di Fratelli d’Italia), aveva ricevuto, come si legge nel rapporto di cui è relatore il deputato di Forza Italia Elio Vito, “valutazioni di segno diverso da parte dei responsabili delle Agenzie” d’intelligence.
“È stato posto in rilievo che in Cina gli organi dello Stato e le stesse strutture di intelligence possono fare pieno affidamento sulla collaborazione di cittadini e imprese, e ciò sulla base di specifiche disposizioni legislative”, si legge. Lo prevedono una legge del 2017, la National Security Law, che “obbliga, in via generale, cittadini e organizzazioni a fornire supporto e assistenza alle autorità di pubblica sicurezza militari e alle agenzie di intelligence”; e la Cyber Security Law, che impone agli operatori di rete di “fornire supporto agli organi di polizia e alle agenzie di intelligence nella salvaguardia della sicurezza e degli interessi nazionali”.
Alla luce di tutto questo, il Comitato riteneva necessario “sottolineare che le pur significative esigenze commerciali e di mercato, che assumono un ruolo fondamentale in una economia aperta, non possono prevalere su quelle che attengono alla sicurezza nazionale, ove queste siano messe in pericolo”. A quelle raccomandazioni non è seguito un divieto da parte dei governi italiani (quello di Giuseppe Conte prima e quello di Mario Draghi oggi) che però hanno deciso di imporre alcune restrizioni ai contratti 5G attraverso l’utilizzo dei poteri speciali.