L’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, esperto militare e docente di Studi strategici, ricostruisce la storia dell’attacco avvenuto esattamente 80 anni fa. I decennali screzi tra Giappone e Usa, la vulnerabilità della base nel Pacifico, e le conseguenze di un attacco così incredibile da aver sempre stimolato i complottisti
I turisti che visitano le Hawaii, oltre a essere affascinati dalla natura dei luoghi, non possono non essere colpiti da due cose: prima di tutto, dallo “Arizona Memorial”, il monumento ai caduti nell’attacco giapponese di Pearl Harbor, di cui oggi ricorre l’ottantesimo anniversario. Si tratta di una passerella che consente di vedere dall’alto ciò che resta del relitto della corazzata “Arizona”, una delle tre navi da battaglia affondate durante l’attacco.
L’altro aspetto che colpisce e sorprende è il numero elevato di coppiette giapponesi in viaggio di nozze alle Hawaii. Anche se l’emigrazione nipponica è relativamente recente, e risale al 1866, l’arcipelago è sempre stato considerato – a torto o a ragione – come il luogo di origine del popolo giapponese, e questa credenza incoraggia i giovani sposi a trascorrere lì la luna di miele. L’arcipelago, quindi, è ritenuto un po’ parte della tradizione e della cultura nipponica, e quest’attenzione è uno degli elementi all’origine della crescente tensione tra gli Stati Uniti e il Giappone, tra il 1898 e il 1941.
Da una rivalità all’inimicizia
Non deve meravigliare che proprio l’annessione dell’arcipelago, da parte degli Stati Uniti, nel 1898, avesse provocato, a suo tempo, una forte reazione da parte dell’opinione pubblica giapponese, che da allora iniziò a vedere gli Stati Uniti come una Nazione avversaria. Questa opinione venne rafforzata dal comportamento del governo di Washington, che si era proposto come mediatore per negoziare un trattato di pace tra la Russia e il Giappone, che aveva sconfitto l’avversario al termine di quasi due anni di dura lotta su terra e sul mare.
Con il Trattato di Portsmouth, infatti, gli Stai Uniti imposero una pace i cui termini furono considerati estremamente sfavorevoli al vincitore. Chiaramente, questa partigianeria nella mediazione indicava che, negli USA, stesse prendendo piede la convinzione che il Giappone, dall’altra parte del Pacifico, era una Potenza emergente con la quale, prima o poi, si sarebbe dovuto fare i conti.
Come se non bastasse, nello stesso anno si verificarono massacri di giapponesi emigrati in California. Questi eventi, uniti a provvedimenti di legge che imponevano limitazioni al diritto di proprietà da parte degli immigrati, e segregavano i loro figli, costringendoli a frequentare scuole separate, sollevarono un tale putiferio in Giappone che il governo di Washington incaricò, nel 1907, la Marina di stilare un piano di guerra, noto come “Plan Orange” che fu però rapidamente messo nel dimenticatoio, quando fu raggiunto un accordo tra i due Paesi per controllare il flusso migratorio.
Lo stesso avvenne nel 1913, quando altre violenze colpirono la comunità giapponese della California, il cui governo aveva varato altre leggi restrittive nei confronti degli emigranti, ma anche questa volta i due governi trovarono un modus vivendi e il piano fu rimesso nel cassetto.
In realtà, il fuoco continuava a covare sotto le ceneri, dato che il Giappone aveva posato gli occhi sulla Cina, e intendeva assoggettarla, dopo averla sconfitta pesantemente nel 1895, mentre gli Stati Uniti volevano che la Cina diventasse un grande mercato aperto a tutti, ma soprattutto a loro, e avevano promulgato la loro “Open Door Policy” già nel 1899. Il diktat delle “21 richieste”, che il Giappone impose alla Cina nel 1915, trasformandola di fatto in un protettorato, non fece che confermare l’esistenza di un dissidio che stava diventando abissale.
La Prima Guerra Mondiale sembrò porre fine a questo dissidio, con il Giappone che si era unito all’Intesa, e quindi, insieme alla Cina, era diventato un alleato anche degli USA. Nel frattempo, però, il Giappone aveva avuto cura di occupare tutte le isole del Pacifico possedute dalla Germania, in modo da crearsi una serie di basi in grado di controllare la metà meridionale di quell’oceano, e la cosa non sfuggì all’attenzione americana.
Questa mossa fu comunque avallata dalle Potenze vincitrici in sede di trattato a Versailles, sia pure sotto forma di mandato della Società delle Nazioni, e con il vincolo di non militarizzare le isole sotto il controllo giapponese. La militarizzazione dei nuovi possedimenti, da parte del governo di Tokyo, in dispregio dei trattati, fece sorgere di nuovo sospetti a Washington, sul fatto che il Giappone stesse perseguendo fini opposti a quelli degli Stati Uniti. Il Plan Orange venne riesumato e, da quel momento, regolarmente aggiornato.
La prima occasione per indebolire il Giappone venne dalla Conferenza di Washington del 1922, sulla limitazione degli armamenti navali. Gli Stati Uniti, in quella circostanza, imposero alla Gran Bretagna di non rinnovare l’alleanza con il Giappone, che risaliva niente di meno che al 1902, e confinò quest’ultimo a un livello di armamenti navali pari al 35% rispetto alla quota di tonnellaggio che gli USA si erano ritagliati.
Ci vollero ancora alcuni anni, prima che le controversie tra i due Paesi arrivassero al calor rosso. L’occasione fu l’invasione giapponese della Cina, nel 1937. Gli Stati Uniti fornirono un supporto economico e militare al governo cinese, giungendo fino a inviare un Corpo di Volontari aeronautici, le cosiddette Flying Tigers, che volavano su caccia Curtiss P-40, prima ancora di entrare in guerra.
L’invasione dell’Indocina, da parte del Giappone, convinse l’Amministrazione di Washington che l’espansionismo giapponese andasse fermato, e nel luglio 1941, fu proclamato un embargo petrolifero nei confronti del Giappone, cui si aggiungeva la chiusura del Canale di Panama ai mercantili nipponici.
Questa mossa portò a un cambiamento radicale dei piani giapponesi, che fino ad allora erano orientati ad attaccare l’Unione Sovietica, in sincronia con la Germania. Per sopravvivere, infatti, il Giappone aveva bisogno di materie prime e di energia. Non potendo più importarle dagli Stati Uniti, la sola possibilità di procurarle era invadendo il Sud Est asiatico, dove il potere coloniale si era azzerato, a causa delle sconfitte francesi, britanniche e olandesi in Europa.
Per un certo periodo, la diplomazia giapponese, appoggiata dalla Marina, cercò in tutti i modi di evitare la guerra contro il Giappone, malgrado alcuni ufficiali dell’Esercito, di idee estremiste, avessero addirittura scatenato una campagna mirata di assassini nei confronti degli oppositori a tale volontà. Significativa, a tal proposito, fu la dichiarazione dell’Ammiraglio Yamamoto, comandante in capo della Marina, il quale – conoscendo bene gli Stati Uniti, dove aveva prestato servizio quale Addetto Navale – affermò che bisognasse costringere alla pace gli Stati Uniti entro sei mesi, altrimenti il Giappone sarebbe stato schiacciato dal potente avversario.
Da quel momento, la spiralizzazione verso la guerra prese velocità. Già nel 1939 gli Stati Uniti avevano spostato la Flotta del Pacifico dalla costa californiana alla base avanzata di Pearl Harbor, nelle Hawaii, una mossa che fu interpretata a Tokyo come un atto ostile, i negoziati per trovare un modus vivendi, condotti niente di meno che dal principe Konoye, molto vicino all’Imperatore, fallirono per l’intransigenza americana, e il Giappone preparò il piano di attacco agli Stati Uniti.
Va detto che questi preparativi non avvennero in un segreto impenetrabile, dato che gli Americani erano riusciti – grazie anche all’aiuto britannico – a penetrare i codici giapponesi, e quando l’Ambasciata di Tokyo a Washington iniziò a ricevere le prime parti della dichiarazione di guerra, il relativo testo venne regolarmente decrittato e posto sul tavolo dei Ministri della Guerra e della Marina, oltre che, naturalmente, del Presidente.
Si era arrivati, quindi, ad una situazione irreversibile, dopo quasi quarant’anni nei quali gli sforzi degli Stati Uniti, nella ricerca di un compromesso con il Giappone sul controllo dell’Asia Orientale, avevano perso vigore, col tempo, fino a cedere il passo a una intransigente volontà di piegare l’avversario.
L’Amministrazione di Washington, però, si illudeva di riuscire a conseguire il ridimensionamento giapponese solo con mezzi diplomatici ed economici, senza bisogno di ricorrere alle armi: tutti, a Washington, sapevano, infatti, che una guerra nel Pacifico, contro il Giappone, sarebbe stata lunga e dolorosa. Ma illudersi che il Giappone si sarebbe ritirato dalla Cina senza combattere era una pia illusione.
La vulnerabilità di Pearl Harbor
Non tutti i Capi della Marina USA erano convinti della saggezza di spostare la Flotta del Pacifico dalla costa californiana, dove avrebbe potuto difendere al meglio il Paese da un attacco avversario, alla relativamente nuova base di Pearl Harbor, nell’isola di Oahu. Questa riluttanza era frutto, non solo dei numerosi giochi di guerra, che avevano mostrato quanto la flotta fosse vulnerabile a un attacco di sorpresa, ma anche, e soprattutto, dalle esercitazioni annuali della flotta.
Il particolare, il 7 febbraio 1932, il partito arancione, con a capo il Contrammiraglio Harry Yarnell sferrò un attacco aereo sulla base, cogliendo di sorpresa le difese del partito avverso. Va notato che l’attacco era stato sferrato da nord, dove Yarnell aveva posizionato le portaerei, sottraendole alla ricognizione del partito avverso. Anche se il comitato aggiudicante decise che l’attacco non era valido, perché non previsto dall’esercitazione, rimase nei leader più avveduti la convinzione che Pearl Harbor potesse facilmente trasformarsi in una trappola per topi.
Questa convinzione fu confermata, nel 1938, da un’altra esercitazione, nella quale le forze aeree della Marina, dirette questa volta dall’Ammiraglio Ernst King – il futuro Capo delle Operazioni Navali nella Seconda Guerra Mondiale – ripeté l’exploit di Yarnell, provocando anche questa volta le ire dei benpensanti.
Sorprende, quindi, la relativa tranquillità con cui venne accettata la decisione del Presidente Roosevelt di spostare nelle Hawaii la Flotta del Pacifico. Nei giorni immediatamente precedenti l’attacco, però, le voci di un conflitto imminente tra gli USA e il Giappone erano giunte fino a Oahu, tanto che furono prese alcune misure precauzionali, alcune delle quali concordate con Washington.
La prima misura fu la decisione di piazzare, su una cima a nord dell’isola, una stazione radar, per sorvegliare eventuali movimenti di aerei provenienti da Nord (un ricordo dell’impresa degli aerei di Yarnell?). La seconda fu l’ordine impartito alle portaerei, comandate dall’Ammiraglio William Halsey, di trasferire un gruppo di aerei da combattimento nell’aeroporto militare dell’isola di Midway, distante poco meno di 1.000 miglia, e – cosa piuttosto strana per gli Americani – di farlo durante un week end. La terza fu il dispiegamento di due bombardieri B-17, a lungo raggio, dalla California alle Hawaii, per aumentare la capacità di azione contro il nemico, in caso di guerra.
Questo fa pensare che le autorità militari e della Marina nelle Hawaii non pensassero alla possibilità di un attacco così in profondità, da parte del Giappone, e ritenessero sufficienti queste poche misure precauzionali, anche perché le comunicazioni tra Washington, dove la crisi era seguita passo dopo passo, con preoccupazione, erano oltremodo scarse e il loro contenuto vago. In buona sostanza, nessuno, né a Washington né a Pearl Harbor, pensava che i Giapponesi avrebbero osato tanto, anche se presero le precauzioni che abbiamo appena visto per essere più pronti a reagire, nel caso peggiore.
L’Ammiraglio Yamamoto, invece, era determinato a creare le premesse per una guerra corta, proprio per le ragioni che aveva espresso a suo tempo. Egli era stato informato della vulnerabilità della base di Pearl Harbor e delle esercitazioni che l’avevano confermata: le spie giapponesi, infatti, non mancavano nell’arcipelago e notizie come quella dell’exploit di Yarnell avevano fatto il giro della popolazione.
Ma l’attacco britannico a Taranto, l’11 novembre 1941, fece capire all’Ammiraglio giapponese che poteva fare affidamento non solo sui bombardieri, per l’attacco, bensì anche sugli aerosiluranti: sarebbe bastato modificare le superfici di governo dei siluri, per limitare la profondità del “sacco” (la traiettoria subacquea che il siluro compie subito dopo l’impatto con l’acqua, prima che inizi la sua corsa), come avevano fatto i Britannici.
Fu così che egli diede il via al piano di attacco, una volta ottenuto il benestare del governo: come all’epoca di Yarnell, la forza delle portaerei si diresse a nord per attaccare da quella direzione, e furono usati i siluri modificati, che avevano dato prova, nei giorni precedenti, di funzionare anche in fondali relativamente bassi.
L’Ammiraglio incaricato dell’azione, Chuiki Nagumo, era però consapevole che le probabilità di sfuggire ad una reazione avversaria, se scatenata dalle portaerei americane, non erano altissime. Quando seppe che queste ultime non erano nel porto, si allarmò e cancellò la seconda ondata di attacco, nel timore di essere a sua volta sorpreso da un attacco aereo.
In effetti, sappiamo che la forza dell’Ammiraglio Halsey, di ritorno dalle Midway, era stata informata non solo dell’attacco, ma anche che gli attaccanti erano lungo un asse nord-sud rispetto ad Oahu. Purtroppo, i mezzi dell’epoca non consentivano di sapere da quale parte fosse il nemico, se a nord dell’isola o a sud. D’istinto egli inviò i ricognitori a sud delle Hawaii, convinto che la stagione invernale portasse a escludere un attacco da nord, e perse l’occasione di vendicare istantaneamente l’aggressione nemica. Va detto che questa non fu l’unica occasione in cui l’istinto tradì l’Ammiraglio americano.
Conclusione
L’attacco giapponese a Pearl Harbor fu solo l’ultimo anello di una perversa catena di relazioni bilaterali passate dalla diffidenza all’inimicizia, fino a diventare odio tra le due Nazioni. Il divario tra i fini che il Giappone si prefiggeva e quelli degli Stati Uniti, in effetti, era incolmabile, e la conclusione inevitabile era la guerra, che il Giappone scatenò, pur sapendo che l’avrebbe quasi certamente persa, se il primo colpo non fosse stato sufficiente a piegare un Paese come gli Stati Uniti, una cosa quasi impossibile da ottenere.
La seconda considerazione riguarda la leadership degli Stati Uniti, convinta di poter piegare la controparte senza rischiare il conflitto aperto, ritenendo sufficienti la diplomazia muscolare (le “gesticolazioni”, un termine indicativo di questo tipo di approccio), nonché le sanzioni economiche. Quest’ultima, come vari studiosi hanno dimostrato, è un’arma spesso a doppio taglio, e tale si dimostrò anche questa volta.
Certo, i responsabili della mancata difesa della flotta americana furono rimossi (anche se, dopo la guerra, furono reintegrati), ma si può notare come le decisioni politiche prese dal governo di Washington, a partire dall’ordine alla Flotta del Pacifico di dislocarsi a Pearl Harbor, una base ancora non sufficientemente protetta, per continuare con una condotta delle trattative a dir poco inflessibile, e per terminare con la mancata allerta generale sull’imminenza della guerra, indicano una superficialità di approccio, nei confronti del Giappone, talmente incredibile che si è gridato al complottismo, una serie di omissione di allerte e di difese volute da Washington per costringere l’opinione pubblica americana a entrare in guerra.
Non credo vi siano stati complotti, da parte americana: accettare un attacco sanguinoso, tale da causare 2.500 morti, quasi quante le vittime dell’11 settembre 2001, non è un approccio coerente con i valori di una Nazione, come gli Stati Uniti, che per primi hanno parlato – oltre due secoli fa – dei diritti degli individui.
La superficialità, invece, è un problema frequente di ogni Paese i cui leader vengono eletti per motivi interni, e si trovano poi a doversi affacciare sul complesso panorama internazionale. Questa è, per me, la spiegazione più plausibile dell’incredibile mancanza di realismo, di cui l’Amministrazione Roosevelt si è macchiata, nella gestione della crisi con il Giappone, mostrando il pugno di ferro, da un lato, e non preparandosi adeguatamente a un conflitto, dall’altro.