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Solo un governo tecnico può portare il presidenzialismo. Ma chi lo vuole davvero?

La riforma costituzionale per superare il bicameralismo perfetto e dare più poteri al presidente del Consiglio è già un cavallo di battaglia propagandistico. L’unica strada sarebbe una proposta sostenuta da un governo con ampia maggioranza, a differenza delle riforme 2006 e 2016 naufragate (anche) perché avevano stampate i volti di Berlusconi e Renzi

Il 2021 volge al termine portandosi con sé le vicende politiche che lo hanno caratterizzato. Campagna vaccinale, Capitol Hill, governo tecnico, vittorie sportive (anche questa è politica), Pnrr, Ddl Zan, allarme fascismo, Afghanistan e “grande centro”, passando per le elezioni comunali e la raccolta firme per i referendum. Siamo tutti pronti a lasciarci la quasi totalità di questi argomenti alle spalle, tuttavia manca all’appello un’ultima questione: l’elezione del presidente della Repubblica.

Come diversi giornali hanno già osservato, mai come in questo caso la scelta del futuro capo dello Stato ha attirato l’attenzione del pubblico e dei partiti coinvolti, questi ultimi impegnati in una corsa contro il tempo per accaparrarsi il ruolo di kingmaker e ridefinire gli equilibri della legislatura. Al momento le uniche cose che sappiamo sono il rifiuto categorico (e irritato) di Sergio Mattarella per un secondo mandato, l’opzione Draghi spinta dall’opposizione, temuta dalla Lega e velatamente considerata dal segretario democratico, i movimenti del gruppo misto ed infine la candidatura kafkiana di Silvio Berlusconi.

Nel marasma che ne consegue, il dibattito sul Quirinale ha riaperto una questione irrisolta della politica italiana, e chissà se il primo cruccio del 2022 non possa essere proprio questo: in Italia si è tornati a parlare di presidenzialismo. A rompere gli indugi è stato per primo Giancarlo Giorgetti auspicando una soluzione gollista per le consultazioni di gennaio (“Draghi potrebbe guidare il convoglio anche dal Quirinale”), segue sul tema Giorgia Meloni che arriva all’ultimo giorno della kermesse di Atreju per rilanciare il vecchio cavallo di battaglia della destra italiana, la repubblica presidenziale, gongolando per l’appoggio dato dal giudice Sabino Cassese alla sua proposta di riforma costituzionale; dopodiché tocca al centrosinistra che coglie la palla al balzo per dire un secco no a questa soluzione, ma allo stesso tempo constatare la necessità di qualche aggiustamento (come vedremo gli esempi non mancano).

Per quanto suggestiva e complessa possa essere l’idea presidenzialista, prima di buttarci sulla fantapolitica bisogna fare chiarezza su determinati punti e capire cosa vogliono gli attori in gioco e quanto concreto ci sia dietro una prospettiva del genere. Andiamo con ordine. In Italia il termine presidenzialismo non indica mai qualcosa di definito, bensì una parola-calderone con cui indicare suggestioni e proposte diverse tra loro il cui unico filo conduttore è l’agognata stabilità dell’esecutivo, obiettivo di tutti e soluzione di nessuno.

Basti pensare alle proposte messe in campo dai partiti, confusi tra il duro e puro modello statunitense e il più presentabile semipresidenzialismo alla francese, divisi tra chi vorrebbe una semplice elezione diretta del presidente e chi vorrebbe un presidente del consiglio con funzioni di primo ministro. Più ci addentriamo nel particolare e meno si parla di presidenzialismo, al contrario si palesa il vero obiettivo che si vuole raggiungere.

La banalizzazione del termine è frutto del desiderio che su carta accomuna tutti gli schieramenti in gioco, il superamento del bicameralismo perfetto. Un punto di partenza obbligatorio per avviare una seria discussione in materia è mettere al centro questa questione, la modifica del rapporto tra le due camere, lasciando per un attimo da parte la proposta presidenzialista in favore di un argomento pragmatico e nei fatti più trasversale, condizione necessaria affinché qualsiasi modifica costituzionale venga almeno discussa prima ancora di essere applicata.

“Il bicameralismo perfetto è una follia” sosteneva nel 2013 l’attuale segretario del Pd Enrico Letta, oggi distratto da argomenti più abbordabili e ben riparato dal ruolo che si è ritagliato all’interno della maggioranza, eppure non è impensabile supporre che se il discorso prendesse questo indirizzo piuttosto che quello presidenziale le dinamiche sarebbero diverse. Le parole sono importanti. Posto ciò, mettere in campo una proposta simile, avviare un processo politico che cambi l’ordine costituzionale e porre le basi perché ciò avvenga è fattibile? Sì. È possibile farlo al momento? Assolutamente no.

I referendum del 2006 e del 2016, ben distanti dal concetto di presidenzialismo ma che a loro modo presupponevano quanto abbiamo discusso ora, sono l’esempio recente che la paternità politica di una modifica simile è il primo ostacolo per la sua realizzazione. La soluzione non può non partire da un governo tecnico sostenuto da ampissima maggioranza, un governo di unità nazionale con conseguente assemblea, la cui caratteristica più importante deve essere l’assenza di qualsiasi prospettiva politica conclusa la legislatura – da questo punto di vista, non sarà e non può essere Mario Draghi l’artefice di una modifica simile, sia per la natura politica della sua maggioranza che per la figura in sé del capo dell’esecutivo, la cui parabola istituzionale non si concluderà certo a gennaio.

Perché possa avvenire un cambiamento in questo senso, serve cinicamente qualcuno disposto a eseguire il compito, farsi portavoce della riforma costituzionale e poi sparire, in poche parole un Mariotto Segni degli anni duemilaventi. Al di là dei presunti uomini della provvidenza, la vera sfida sarebbe un progetto condiviso e graduale, cosa su cui dovrebbero spingere i presidenzialisti di casa nostra se realmente interessati ad una riforma che modifichi l’assetto attuale. Le parole di Giorgia Meloni da questo punto di vista sono l’esatto contrario di quanto auspicato.

La riforma costituzionale decantata dalla leader di Fratelli d’Italia fa riferimento a una proposta presentata già nel 2018, in cui facendo riferimento alle idee di “Gaetano Salvemini, Pietro Calamandrei, Randolfo Pacciardi, Leo Valiani, Giuseppe Saragat, Giuseppe Maranini e Giorgio La Pira”, concernente la modifica dei tredici articoli della costituzione riguardanti il presidente della Repubblica, riassumibili nell’elezione diretta del capo sello Stato, direzione generale del presidente sull’esecutivo e revoca dei ministri.

Ambizioso quanto radicale, un progetto presentato in blocco dal partito (e solo da questo) quante chance realistiche può avere? Nessuna. Così facendo, che la riforma costituzionale diventi l’ennesimo cavallo di battaglia propagandistico non è un rischio, è un dato di fatto. La discussione muore sul nascere e si riparte daccapo. La frase prima citata di Giorgetti è espressione di pancia, un malumore che coinvolge parte dell’elettorato e quindi più indicativa delle proposte nate e morte in pochi giorni, come la riforma presidenziale di Meloni ripescata dopo quattro anni o la tanto annunciata proposta sul monocameralismo dell’on. Baldelli (non sopravvissuta oltre il recinto di Twitter). Il malumore è un segnale, coglierlo è altro discorso.

I recenti avvenimenti gettano le basi per discutere seriamente di una riforma in questo senso, tutto dipende dal modo e dalle tempistiche con cui verrà affrontata, ma la pulce nell’orecchio dell’opinione pubblica può portare più risultati di quanto fatto sinora. In Italia non mancano i sostenitori, manca la volontà dei partiti.

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