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Perché appoggio le proposte di Brambilla sul cuneo fiscale

Tre operazioni alternative quelle del presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, che potrebbero migliorare il reddito delle famiglie e, in particolare, quello dei lavoratori. Da valutare con attenzione anche se siamo al photo-finish del dibattito sul disegno di legge di Bilancio del 2021 sul 2022-24. È semplice, di facile comprensione agli elettori e permetterebbe al governo di fare goal. Il commento di Giuseppe Pennisi

A pochi giorni dalla conclusione del dibattito sul disegno di legge di Bilancio, governo, movimenti politici ed associazioni imprenditoriali si stanno incartando sulla riforma tributaria ed in particolare sulla riduzione del cuneo fiscale, obiettivo condiviso da tutte le forze politiche sia quelle della vasta maggioranza sia quelle della piccola opposizione. È probabile che la riduzione del cuneo – ossia della differenza tra costo del lavoro all’impresa e salario netto al lavoratore – ancora una volta venga rinviata alla prossima legge di Bilancio, ossia alle calende greche.

In questo bailamme, il presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, Alberto Brambilla ha formulato una proposta che merita di essere analizzata. Vorrei ricordare che venti anni fa, Brambilla era uno degli economisti di punta della Lega che lo ha proposto per importanti incarichi istituzionali che ha svolto con competenza e rigore. Il leader della Lega, Matteo Salvini, farebbe bene ad ascoltarlo.

La proposta di Brambilla è stata pubblicata su riviste specializzate. Vale la pena farla conoscere ad un numero più vasto di lettori. Il governo propone come unica soluzione la riduzione dell’Irpef che grava su redditi e salari dei lavoratori, in particolare dipendenti pubblici e privati. È una soluzione – ha sottolineato il supplemento “Economia” del Corriere della Sera del 6 dicembre – che pone il carico fiscale “sempre sugli stessi contribuenti”. Il direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini, proprio in questi giorni ha tenuto a ricordare che il 90% del gettito Irpef proviene dalla imposizione su lavori dipendenti e pensionati, proprio coloro che si vorrebbe gravare con nuovi “contributi di solidarietà”.

Brambilla comincia con una semplice considerazione: la sanità pubblica nel 2019 è costata 1.930 euro pro capite. Quanti cittadini riescono con le loro imposte, in primis l’Irpef, a pagarsi la propria spesa sanitaria? Dall’esame delle dichiarazioni relative ai redditi del 2019, comunicate al fisco nel 2020, il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali ha rilevato che il 43,68% dei cittadini italiani paga solo il 2,31% del gettito Irpef pari a 172,56 miliardi di euro al netto di bonus e detrazioni varie, e che la metà dei nostri concittadini ne paga poco più del 3% per un valore di 5,2 miliardi. Per garantire l’assistenza sanitaria a questi nostri connazionali occorre che altri cittadini versino 52,7 miliardi di euro di imposte. Poi, c’è da pagare tutto il resto: la Pubblica amministrazione, gli investimenti, la scuola, la giustizia, la sicurezza, gli esteri, e così via: un enorme trasferimento di ricchezza a oltre la metà degli italiani sotto forma di servizi totalmente gratuiti e di cui, probabilmente, questi concittadini non si rendono neppure conto.

In questo 43,68% troviamo che 8,2 milioni di lavoratori dipendenti – sui 21,4 milioni di dichiaranti – hanno redditi fino a 15mila euro lordi l’anno e pagano un’Irpef media inferiore a 250 euro l’anno. Si tratta proprio della fascia che dovrebbe beneficiare della riduzione del cuneo fiscale: quindi, tutto gratis? Seguono altri 3 milioni di lavoratori con redditi tra 15 e 20mila euro che versano un’Irpef inferiore a 1.500 euro. Per trovare lavoratori che, con la loro Irpef, pagano la sanità per sé e per la persona a carico – a ogni dichiarante corrispondono in media 1,44 abitanti – dobbiamo arrivare ai 5,7 milioni di dipendenti che hanno redditi tra 20 e 29mila euro e che versano un’imposta media di 2.702 euro, di poco inferiore al costo sanitario comprensivo della mezza persona a carico (2.780 euro). Quelli che le tasse le pagano veramente sono i dipendenti con redditi dai 29mila euro in su: meno di 4,5 milioni (poco più del 20%) che non beneficiano dei circa 10 miliardi di bonus Renzi, degli altri bonus e agevolazioni varie (salvo per la previdenza complementare e le ristrutturazioni) e nemmeno dell’Assegno unico e universale per i figli. Ma per questi lavoratori è difficile prevedere sconti fiscali: se no chi paga i servizi?

Se questa è la situazione fiscale – continua Brambilla – vediamo ora com’è composto il cuneo. Iniziamo dalla parte “contributiva” con un esempio: un lavoratore fino a 25mila euro di reddito riceve 100 in busta paga, paga il 9,2 % circa per i contributi pensionistici e sui restanti 90,8 paga l’Irpef al netto delle deduzioni, detrazioni e bonus, pari in media al 7% circa (media dati 2019): il netto è di circa 85 ma, con le tasse, non si è pagato neppure la sanità, figurarsi la scuola per i figli e tutti i servizi forniti dal settore pubblico. Al datore di lavoro questo lavoratore costa 100 più circa 33 per i contributi previdenziali (23,8) e le prestazioni temporanee (malattia, maternità, disoccupazione ecc.) versati all’Inps e per l’assicurazione contro gli infortuni pagata all’Inail. La differenza tra netto e costo azienda è pari a 1,57 volte. Prima domanda: è riducibile questo cuneo contributivo? Certamente no, perché se si vogliono ridurre i contributi previdenziali, oltre alla temporanea perdita di gettito, occorre informare il lavoratore che la sua futura pensione sarà minore in proporzione alla riduzione contributiva. Seconda domanda: possiamo ridurre le grandi conquiste sociali che garantiscono un salario in caso di maternità, malattia, infortunio, inabilità e invalidità o disoccupazione? Il problema della riduzione del cuneo fiscale e contributivo sta tutto qui: non si può ridurre la pensione così come non si possono ridurre le prestazioni sociali.

Ma c’è una terza componente incomprimibile del cuneo. Si prenda ad esempio il contratto del settore commercio e servizi: su ogni ora lavorata gravano i costi di alcuni “istituti” contrattuali di cui beneficiano i lavoratori, come la 13esima e 14esima mensilità, il Premio di Risultato previsto nei contratti territoriali o aziendali (circa mezza mensilità), il Tfr (in pratica, una mensilità), le ferie e festività (in media più di una mensilità), cui vanno aggiunti i costi per l’adesione al fondo di assistenza sanitaria integrativa, al fondo pensione, la banca delle ore, i permessi retribuiti e altre agevolazioni. In totale, il nostro 1,57 volte passa quasi al doppio che, aggiungendo gli altri obblighi contrattuali, di sicurezza e di gestione, arriva a 2,2 volte.

Cosa eliminiamo per ridurre il cuneo? Le ferie? Il Tfr? Ovvio che nessuno vorrà rinunciare a questi istituti. Infatti, è evidente che parlare di netto in busta paga e di differenza con il costo azienda è fuorviante perché – tranne l’Irpef – tutto va a beneficio del lavoratore, in modo diretto (mensilità aggiuntive, Tfr, Premio di Risultato) o indiretto (fondo pensione, assistenza sanitaria, contributi all’Inps, assicurazioni sociali e così via). Anche l’Irpef va a beneficio del lavoratore e della sua famiglia se non altro per fruire della sanità, della scuola ecc. Ridurre anche questa piccola quota di Irpef significherebbe mettere sulle spalle del restante 21,39% dei lavoratori dipendenti – che già pagano il 73,47% dell’Irpef della categoria – ulteriori oneri.

Sarebbe indubbiamente educativo e utile mandare a tutti i contribuenti una comunicazione che riporta quanto hanno versato di Irpef nell’anno, quanto hanno “ricevuto” almeno per sanità, scuola e assistenza e a quanto ammontano sgravi, bonus e detrazioni di cui hanno beneficiato: forse, si renderebbero conto dei vantaggi di cui beneficiano, mentre la politica capirebbe che l’annunciata riforma fiscale aggraverebbe la situazione di quel 21% della popolazione che paga le imposte per tutti ma che il governo esclude da qualsiasi agevolazione.

Ci sono –secondo Brambilla – almeno altre tre operazioni alternative che potrebbero migliorare il reddito delle famiglie e, in particolare, di quelle dei lavoratori dipendenti: 1) il contrasto di interessi, che genera ogni anno oltre 1.400 euro netti a famiglia e benefici contributivi anche allo Stato; 2) la possibilità che straordinari e aumenti delle due prossime tornate contrattuali vengano esentati sia dalle contribuzioni sociali sia dai citati istituti contrattuali e tassati in modo flat al 15%; 3) lo sviluppo del welfare aziendale.

La proposta va valutata con attenzione anche se siamo al photo-finish del dibattito sul disegno di legge di Bilancio del 2021 sul 2022-24. È semplice, di facile comprensione agli elettori e permetterebbe al governo di fare goal. Dio solo sa di quanto ce ne è bisogno.

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