La relazione tra i due Paesi non è mai stata così forte, ha detto il chargé d’affaires Smitham alla conferenza dello Iai. Il merito è dell’impegno italiano nei teatri internazionali e dell’autorevolezza di Draghi. Ma che succede se tornano i populisti a Roma e DC?
“La relazione tra Stati Uniti e Italia non è mai stata così forte”. Con queste parole il chargé d’affaires Thomas Smitham ha aperto l’incontro “A Lasting Bond. Revisiting & Reinvigorating Italy-US Relations 160 Years since their Inception” organizzato dallo IAI e dall’ambasciata americana a Roma. Dopo i saluti dell’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci (presidente Iai) e l’intervento della viceministra agli Affari Esteri Marina Sereni, Riccardo Arcaro (Iai) ha guidato due sessioni, una dedicata alla storia delle relazioni transatlantiche e ai rapporti tra italiani e italo-americani, l’altra concentrata sul futuro di questo rapporto nato (formalmente) 160 anni fa, con una lettera inviata a Cavour da Abraham Lincoln, esposta nei saloni della Farnesina proprio per commemorare la ricorrenza.
In questa seconda sessione, Adriana Castagnoli del Sole 24 Ore e il professor Jason Davidson (University of Mary Washington) hanno descritto sfide e punti di convergenza tra l’attuale amministrazione americana e il governo di Mario Draghi. Davidson in particolare ha richiamato la “classificazione” del nostro Paese, che dalla fine della Guerra Fredda è passato da consumer of security a producer of security, definizione usata anche dal segretario alla Difesa Lloyd Austin.
L’Italia infatti non è solo terra di basi americane che ospitano oltre 12mila soldati, in una posizione insostituibile (“nessun partner, che sia della Nato o meno, offre una location così strategica”), ma impiega oltre 9.449 militari all’estero in 44 operazioni su 4 continenti, di cui 1.200 per Unifil in Libano e 300 nel Sahel, la regione più delicata in termini di lotta al terrorismo e alle minacce che arrivano dall’Africa. Al confronto, ricorda il docente, la Germania ha solo 3mila soldati impegnati in missioni all’estero.
L’impegno italiano nelle missioni in Iraq e Afghanistan, secondo in Europa solo a quello inglese, è stato sempre considerato cruciale a Washington. A maggior ragione dopo la Brexit, ora è l’Italia a essere il terminale del Transatlantic bridge, mentre la Francia prova a imporre la sua visione di autonomia strategica e subisce lo smacco di Aukus.
Ciò per quanto l’Italia ha da offrire agli Usa in termini di sicurezza e difesa: il terzo Pil europeo e il quarto posto nella Nato per spesa militare. Ma che dire del contrario? L’America vanta ancora l’economia più ricca e l’esercito più imponente al mondo, con un budget triplo rispetto alla Cina. Sviluppa la più avanzata tecnologia per la difesa e ha mostrato il suo impegno anche nei teatri che avevano un’importanza diretta per gli alleati europei. Davidson ha ricordato il caso del Kosovo e anche quello della Libia nel 2011: indipendentemente dai propositi o da come sia andata a finire, furono Regno Unito e Francia a chiedere l’intervento dei caccia americani contro Gheddafi, e Obama non si tirò indietro (salvo poi chiamare gli europei “scrocconi”, ndR).
Oggi l’Italia si trova in una situazione senza precedenti, ed è principalmente merito di Draghi, che gode di rispetto e ammirazione a Washington come pochi leader italiani prima d’ora. Davidson ne è convinto: il G20 a guida italiana non avrebbe mai potuto trovare un accordo sulla global minimum tax senza la sua autorità in materia finanziaria. Né, secondo Davidson, un altro premier italiano sarebbe stato incluso nelle telefonate fatte da Biden alla vigilia del suo incontro virtuale con Putin.
Ho chiesto al docente americano se a Washington puntano su Draghi al Quirinale, per “garantirlo” al vertice delle istituzioni italiane per altri 7 anni, o preferiscono che porti a termine il suo lavoro a Palazzo Chigi, con poteri più ampi ma con un mandato potenzialmente molto più breve. L’amministrazione ovviamente non ha una posizione ufficiale, ma è opinione diffusa che la preferenza sia sulla presidenza del Consiglio: la presidenza della Repubblica è vista come un ruolo di forte rappresentanza ma non altrettanto forte impatto sulla politica estera.
Riguardo al futuro, la relazione tra Stati Uniti e Italia ha davanti due sfide potenziali: il ritorno del populismo, sia a Roma che a DC, e una diversa prospettiva strategica davanti alle questioni globali.
Sul primo punto, c’è una certa serenità. Il governo giallo-verde, dichiaratamente sovranista e populista, è stato radicale solo a livello retorico, non riuscendo a promuovere un vero cambiamento nelle relazioni internazionali. Effetti concreti si sono avuti sulla politica migratoria nel Mediterraneo, tema caro anche a una potenziale maggioranza a guida Fratelli d’Italia, ma che non interessa il rapporto transatlantico.
Anche dal lato americano, una vittoria della fazione trumpiana (o dello stesso Trump) alle presidenziali 2024 non dovrebbe compromettere il solido rapporto tra i due Paesi, ed è sempre l’esperienza a fare da precedente. L’ex presidente repubblicano ha messo in pratica le sue promesse anti-migranti al confine con il Messico, così come quelle protezionistiche contro la Cina e (in parte) contro l’Europa. Ma sul piano di difesa e sicurezza, nonostante la retorica sulla Nato in declino, l’impegno americano è rimasto più o meno stabile. L’alleanza atlantica, salvo frange minoritarie, gode di sostengo bipartisan sia al Congresso che nell’opinione pubblica.
Il silver lining, il lato positivo della faccenda, è che le scelte di politica estera non parlano alla pancia dell’elettorato populista. Indebolire la Nato non porta consensi, dunque perché mai infilarsi in un tunnel così pericoloso?
Della seconda sfida abbiamo un assaggio in questi giorni con il boicottaggio diplomatico dei Giochi invernali a Pechino: che succede se Europa e Usa non guardano attraverso le stesse lenti un problema comune? Secondo l’Interim national security strategic guidance e il Worldwide threat assessment pubblicati in primavera dall’amministrazione Biden, la minaccia globale numero uno è la Cina. Per l’Italia, citando il white paper del 2015, le preoccupazioni principali arrivano dal Mediterraneo (terrorismo, criminalità, migrazioni) e dal cyber-crimine. A Roma – ed è già successo – il governo potrebbe non condividere la visione sulla Cina, mentre a Washington – e c’è chi lo dice da tempo – si potrebbe spingere l’Europa a cavarsela da sola davanti alle sfide militari più complesse. Anche se, ovviamente, ciò si scontra con l’ostilità verso l’autonomia strategica targata Macron.
Su questo punto, si entra in un terreno complicato: l’Europa cerca la strategic autonomy ma è vittima di strategic cacophony: ogni Stato membro va per la sua strada, gli interessi della Polonia non sono allineati con chi si affaccia sul Mediterraneo, la posizione degli scandinavi non si concilia con il desiderio di egemonia francese e così via. “La Francia non cerca un consensus europeo, vuole guidare la politica estera europea per proiettare la sua potenza nel mondo, e questo respinge alcuni partner, tra cui gli Stati Uniti”.
Ma alla domanda sugli effetti di una “biforcazione” tra Stati Uniti ed Europa sul boicottaggio olimpico, Davidson è realista: a Washington sanno che molti Paesi non vogliono alienare la Cina su questo punto, per i motivi più disparati. L’Italia in particolare, ospitando i prossimi giochi a Cortina, si troverebbe in una posizione molto scomoda se scegliesse di non mandare i propri rappresentanti politici e sportivi. La relazione tra Italia e Stati Uniti, insomma, resterebbe better than ever anche dopo una trasferta olimpica.