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Summit per la democrazia. La regista di Biden è una ex reporter a Hong Kong

Shanthi Kalathil, membro del Consiglio per la sicurezza nazionale, è l’architetto dell’incontro convocato dalla Casa Bianca. Il ritorno della colonia britannica alla Cina ha segnato la sua vita e la sua carriera

Chi è Shanthi Kalathil, regista del Summit per la democrazia convocato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden?

Cinquant’anni. Figlia di immigrati da India e Taiwan, laureata all’Università della California, Berkeley, e alla London School of Economics and Political Science. Parla perfettamente il mandarino. Ex giornalista del Wall Street Journal a Hong Kong negli anni del trasferimento della sovranità della colonia britannica al governo di Pechino e del boom dell’economia cinese. Già senior director dell’International Forum for Democratic Studies al National Endowment for Democracy, organizzazione statunitense fondata nel 1983 con l’obiettivo promuovere la democrazia nel mondo e finanziata dal Congresso americano. Coautrice del volume “Open Networks, Closed Regimes: The Impact of the Internet on Authoritarian Rule”, in cui esaminando otto casi – Cina, Cuba, Singapore, Vietnam, Birmania, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto – per spiegare che Internet non è necessariamente una minaccia per i regimi autoritari, anzi. In passato ha lavorato anche con la U.S. Agency for International Development, il Georgetown’s Institute for the Study of Diplomacy, il Carnegie Endowment for International Peace, il Council on Foreign Relations ed è stata consulente di Banca mondiale, Aspen Institute e altre istituzioni. Sposata con Jon Wolfsthal, già al Consiglio di sicurezza nazionale con Barack Obama in qualità di senior director per il controllo delle armi e la non proliferazione.

Oggi nel Consiglio per la sicurezza nazionale di Biden c’è Kalathil, a coordinare gli affari che riguardano democrazia e diritti umani.

Chi la conosce bene ha indicato a Politico alcuni passaggi di un suo articolo sul Wall Street Journal pubblicato il 30 giugno 1997, alla vigilia del trasferimento della sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese. Ecco la prima frase.

Arroccato sul balcone dell’edificio del Consiglio legislativo di Hong Kong davanti a più di 1.000 sostenitori, il leader pro-democrazia Martin Lee ha giurato che lui e gli altri legislatori eletti che la Cina ha messo fuori gioco avrebbero “continuato a essere la voce di Hong Kong”.

“Da un lato, l’economia cinese era in piena espansione, e alcune persone la vedevano come un’opportunità di business”, ha raccontato Jon Hilsenrath, firma del Wall Street Journal che era a Hong Kong con Kalathil, a Politico. Dall’altro lato c’era chi cercava di lasciare l’ex colonia britannica: “C’era molta incertezza su come la Cina avrebbe gestito” Hong Kong e “molto scetticismo” sul fatto che “avrebbe mantenuto le sue promesse di conservarlo” come “un luogo democratico”, ha aggiunto. Quell’esperienza ha cambiato la vita di Kalathil. “È stato un momento che l’ha portata a cambiare la sua carriera dal giornalismo”, ha detto un collega di oggi. Allora ha deciso di lasciare il giornale e dedicarsi agli studi di politica comparata. In particolare di autocrazie contro democrazie, tema diventato centrale nella politica di Biden.

Questo spirito ha guidato il suo lavoro in vista del Summit per la democrazia a cui sono stati invitati oltre 100 Paesi. Secondo Steven Feldstein, ricercatore del programma democrazia, conflitti e governance del Carnegie, ha individuato tre elementi che hanno influito sulla scelta degli ospiti. Tra questi, come raccontato su Formiche.net, gli interessi strategici degli Stati Uniti: Pakistan, Filippine e Ucraina sono democrazie imperfette con problemi di corruzione e stato di diritto, ma sono partner importanti per Washington rispettivamente per la lotta al terrorismo, contrastare l’influenza cinese e per resistere all’influenza russa sull’Est Europa.

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