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Aumenteranno i tassi dopo le feste? L’analisi di Pennisi

Domanda che interessa in modo particolare l’Italia e gli italiani a ragione dell’alto debito della Pubblica amministrazione e di una ripresa molto rapida nel 2021 ma anticipata come più lenta nel 2022 (già prima che la nuova ondata della pandemia ponesse ostacoli al rilancio delle attività economiche). Il commento di Giuseppe Pennisi

“Dopo la Feste, gabbato il Santo”, dice un vecchio proverbio. In termini più semplici, possiamo chiederci, a conclusione di una serie di articoli ospitati da Formiche.net sul tema delle pulsioni, e dei tremori e timori, inflazionistici delle ultime settimane, se dobbiamo aspettarci politiche monetarie restrittive all’inizio del 2022, quando si riuniranno gli organi collegiali che governano le principali autorità monetarie. È una domanda che interessa in modo particolare l’Italia e gli italiani a ragione dell’alto debito della Pubblica amministrazione e di una ripresa molto rapida nel 2021 ma anticipata come più lenta nel 2022 (già prima che la nuova ondata della pandemia ponesse ostacoli al rilancio delle attività economiche).

Dagli annunci che le due principali banche centrali dei Paesi industrializzati ad economia di mercato, hanno fatto negli ultimi giorni (il 15 dicembre la Fed e il giorno seguente la Bce) – ha acutamente sottolineato Angelo Baglioni dell’Università Cattolica – è possibile prevedere diverse velocità. La Federal Reserve Usa anticipa un aumento dei tassi di interesse già da marzo-aprile 2022, mentre la Banca centrale europea (Bce) rinvia la mossa fino alla fine dell’anno prossimo. La Bce assicura in maniera esplicita il rinnovo dei titoli in scadenza, acquistati con il Pandemic Emergency Purchase Programme (Peep), per almeno tutto il prossimo triennio. La Fed è più vaga su questo punto, probabilmente contando sul fatto che la “nuova normalità” della politica monetaria statunitense già prevede il mantenimento di un ampio portafoglio-titoli. Inoltre, la Bce compensa la fine del Pepp con un rafforzamento dell’altro programma (Asset Purchase Programme), seppure in misura inferiore rispetto alle attese dei mercati.

La diversa velocità delle due banche centrali sembra riflettere preoccupazioni in parte differenti. La Fed è più preoccupata che la dinamica inflazionistica possa sfuggirle di mano, la Bce sembra più preoccupata di un possibile ritorno della pandemia, ma soprattutto deve fare i conti con la delicata situazione dei Paesi ad alto debito, come l’Italia, e con l’impatto destabilizzante che una rapida uscita dalle misure monetarie non convenzionali, quali il Qe, potrebbe avere sul mercato del debito pubblico di quei Paesi. All’interno del Consiglio direttivo della Bce i “falchi”, che premevano per un rapido abbandono del Qe, sono stati messi in minoranza (per ora). Le nuove nomine fatte dal Governo della Repubblica Federale alla guida della Bundesbank fanno, però, presagire un possibile cambiamento di atteggiamento anche negli organi di governo della Bce.

Senza dubbio, l’aumento dei prezzi si percepisce nelle tasche e nei portafogli soprattutto degli americani (più che degli europei): l’indice dei prezzi al consumo viaggia al tasso del 6,8% negli Stati Uniti, mentre il saggio è considerevolmente più basso (4,1% all’ultima conta) nell’area dell’euro. Negli Usa, se depurato dai prezzi dell’energia e dei generi alimentari (due componenti caratterizzate da forti fluttuazioni) cresce al tasso del 4% l’anno, il tasso più sostenuto degli ultimi trent’anni. Nell’area dell’euro, invece, è gradualmente cresciuto dalla scorsa estate toccando il 2% l’anno in ottobre; un aumento dei prezzi del 2% l’anno è da sempre l’obiettivo della Bce. Il 22 dicembre, una buona analisi del Centro Studi Confindustria ha documentato come l’inflazione sia molto “eterogenea” nelle diverse economie di quella che possiamo chiamare l’”area economica atlantica”

Si può prevedere che Stati Uniti ed Europa prendano strade marcatamente differenziate? Occorre augurarsi che ciò non avvenga perché potrebbe causare tensioni di non poco momento in un mercato dei capitali “atlantico” che è sufficientemente integrato anche se è ben distante da essere “unico” (non lo è, peraltro, neanche quello dell’unione monetaria europea).

Guardiamo, quindi, soprattutto agli Usa. Tra gli economisti che suggeriscono politiche monetarie più restrittive ci sono essenzialmente due scuole: quella che paragona l’attuale inflazione al 1946-48 quando all’uscita dalla seconda guerra mondiale si verificarono (come oggi) forti strozzature nella catena dell’offerta; quella che la paragona all’inflazione degli anni settanta e dei primi anni ottanta iniziata con la doppia crisi petrolifera e con la fine del nesso tra dollaro ed oro. In ambedue i casi, le autorità monetarie utilizzarono “cure da cavallo” per abbattere l’inflazione di diversi punti percentuali (circa 7 all’inizio degli anni ottanta, attorno a 3 alla fine degli anni quaranta). La “cura Volcker” (dal nome del Presidente della Federal Reserve all’inizio anni ottanta) fu severissima perché dopo oltre dieci anni di inflazione sostenuta, il fenomeno faceva ormai parte delle aspettative degli agenti economici americani (individui, famiglie, imprese). La “cura Volcker” fu, però, anche una determinante dell’alto tasso disoccupazione a cui pose rimedio la politica di bilancio espansionista delle due amministrazioni Reagan.

Fortunatamente, gli Usa non sono in una situazione paragonabile a quella degli anni Settanta e dell’inizio degli anni Ottanta, ma in una situazione analoga a quella della fine degli anni quaranta, quando, però, la “stretta monetaria” fu troppo forte da provocare la recessione dell’inizio degli anni cinquanta. Gli economisti anziani, e quelli che conoscono la storia monetaria americana, la sanno. C’è da augurarsi che non si cada nello stesso errore.

Infine, occorre porre una domanda. Dopo le profonde trasformazioni avvenute con la pandemia (o da essa accelerate), cosa c’è di sacrosanto nel mantenere un obiettivo d’inflazione del 2% l’anno stabilito dalla Federal Reserve oltre trenta anni fa e della Bce oltre venti anni fa? Si potrebbe portarlo al 2,5%-3% sino a quando, passata (speriamo) la pandemia, il quadro si è stabilizzato.

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