Nuova carica, volti vecchi. Il nome di Vladimir Kiriyenko, nuovo capo del “Facebook” russo VKontakte, ricorre nei rapporti di Nato e Usa sulla guerra ibrida di Vladimir Putin. Così il Cremlino si prepara alla social war. L’analisi di Federico Berger, esperto di social media intelligence
La prima metà di dicembre è stata piuttosto turbolenta per il VK Group, la società che in Russia controlla numerosi servizi web tra cui la piattaforma VKontakte (o VK), probabilmente il più celebre social media nei Paesi dell’ex Unione Sovietica.
Come risultato di una serie di transazioni e tramite una rete di sussidiari e società affiliate, nei primi giorni del mese è andata in porto l’acquisizione di più del 50% del gruppo da parte di Gazprom, gigante del settore dell’energia controllato dal Cremlino. A stretto giro, il 3 dicembre sono arrivate le dimissioni da parte di Boris Dobrodeev dal ruolo di Chief Executive Officer di VK, mentre Gazprom Media ha dichiarato che il cosiddetto “Facebook di Russia” rimarrà sostanzialmente “un’azienda indipendente”.
Agli occhi di commentatori e analisti, ciò che ha destato ulteriori preoccupazioni in materia di controllo governativo sui social network è stata la nomina del nuovo CEO del VK Group. Il 13 dicembre è stato indicato Vladimir Kiriyenko, già vicepresidente di Rostelecom (compagnia di telecomunicazioni e trazione statale), quale successore naturale di Dobrodeev.
La sua figura è indissolubilmente legata a quella del padre Sergei Kiriyenko, una delle figure di spicco nel panorama politico russo. Ex Primo Ministro della Federazione Russa nel 1998, Kiriyenko senior è attualmente il numero due del Gabinetto della Presidenza Putin, nonché tra i principali promotori della riforma costituzionale del 2020 voluta proprio dal Presidente in carica. Il politico è anche coinvolto nelle sanzioni di Unione europea e Regno Unito relative all’affaire Alexei Navalny.
L’acquisizione di VK e la nomina del nuovo CEO sembrano allineate con la strategia delle autorità russe di rafforzare controllo e vigilanza sulla rete internet a livello nazionale. Nell’estate del 2021, Putin ha promulgato una legge che obbliga le maggiori piattaforme social e le Big Tech a stabilire un’entità legale in Russia per poter continuare ad essere operative in loco. Il provvedimento riguarda tutti i network con più di 500.000 utenti connessi al giorno, andando a interessare almeno 20 entità tra cui Meta, Google, Telegram e Twitter.
Le pressioni da parte di Mosca su VK e altre piattaforme non sono però una novità. A partire da quando Pavel Durov iniziò lo sviluppo del network nel 2006, negli anni VKontakte è diventato uno strumento utile a diversi movimenti per raccogliere, organizzare e coordinare gruppi di protesta anche molto nutriti. Come nel 2012, con le strade di Mosca che vennero letteralmente invase dalle contestazioni al governo Putin, o nel 2014, quando le violente rivolte contro le autorità in Ucraina portarono anche alla morte di due persone.
Proprio nei mesi successivi agli scontri di Kiev, il braccio di ferro con il Federal Security Service o FSB (l’organo controllato dal Cremlino per la sicurezza interna e i servizi di controspionaggio) sulla questione della gestione dei dati personali dei cittadini ucraini portò Durov a farsi da parte e a cedere le sue quote del gruppo.
Ma un controllo di Stato più capillare e strutturato su un social network che conta all’incirca più di 100 milioni di utenti attivi potrebbe avere implicazioni che vanno ben al di là della sfera informativa domestica. A fronte di un’audience composta da più di 71 milioni di russi che mensilmente visitano la piattaforma, VK è il numero uno dei social mediaanche in diversi Paesi confinanti con il gigante euroasiatico e di grande rilevanza strategica per il Cremlino come l’Ucraina, la Bielorussia, il Kazakistan e la Lettonia.
Senza considerare che, come descritto in un report del Dipartimento di Stato USA, VKontakte è ritenuto uno dei possibili megafoni della disinformazione di fabbrica russa, tanto da essere già stato impiegato da Mosca per impostare e amplificare diverse campagne di destabilizzazione e propaganda. Un esempio è rintracciabile nel 2017, quando l’amministrazione ucraina è stata costretta a bloccare l’accesso a VK e altre piattaforme per far fronte agli attacchi cyber e alle campagne di influenza attribuite alla Russia. Un teatro, quello ucraino-russo, dove proprio nell’ultimo periodo continuano le forti tensioni di confine e le provocazioni sull’asse Kiev-Mosca sotto la grande attenzione della comunità internazionale.
Come la dottrina del Cremlino riguardo alla cosiddetta “information war” insegna, e come testimoniano i vari tentativi di interferenza nel dibattito pubblico estero sui social media (come quelli della camaleontica Internet Research Agency), un utilizzo più sofisticato e spregiudicato di VK da parte di Mosca potrebbe non essere da escludere in un futuro non troppo lontano.