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Dagli aiuti di Stato alle premesse per una politica industriale europea

La “dottrina prevalente” nell’Ue è che lo sviluppo industriale deve essere garantito dalla libera concorrenza, dalla mancanza di aiuti di Stato e di posizioni dominanti tra i player. La domanda è: che spazio c’è per politiche industriali nazionali nell’Ue? Il commento di Giuseppe Pennisi

Molto si parla, anche sui media, di quale sarà la possibile evoluzione delle misure di vigilanza delle politiche di bilancio europee (i “parametri di Maastricht”) che dovranno essere rinegoziati nel corso di quest’anno. Quasi nulla del regime degli “aiuti di Stato”. La Commissione europea ha adottato un “Quadro Temporaneo” per consentire agli Stati membri di avvalersi pienamente della più ampia flessibilità prevista dalle norme sugli aiuti di Stato al fine di sostenere l’economia nel contesto dell’epidemia di Covid-19.

Si tratta di una misura che consente agli Stati membri di garantire che le imprese di tutti i tipi dispongano di liquidità sufficiente e di preservare la continuità dell’attività economica durante e dopo l’emergenza epidemiologica da Covid-19. Gli Stati membri se ne sono avvalsi alla grande. Tanto da far temere al settimanale The Economist (fascicolo dell’8-14 gennaio 2022) che l’aumento della presenza dello Stato in molti settori produttivi voglia dire la fine del mercato unico nato, dopo un percorso non facile nel 1993.

La Commissione Ue sta delineando una strada di ritorno graduale alla disciplina ordinaria e, in questo contesto, l’estate scorsa ha introdotto nuove tipologie di aiuti disponibili in questa fase. L’intenzione è quella di superare progressivamente le misure di sostegno straordinario da parte degli Stati, consentite nel periodo di crisi, per evitare rischi di una ripresa asimmetrica e di una crescente divergenza tra le economie degli Stati membri. L’obiettivo, infatti, è quello di tornare con gradualità al regime ordinario, per evitare brusche discontinuità che potrebbero ripercuotersi negativamente su imprese e settori che ancora necessitano di sostegno. Inoltre, la Commissione vuole anche accelerare, attraverso l’introduzione di nuovi strumenti nel “Quadro Temporaneo”, il percorso verso una crescita sostenibile, “verde” e digitale, in linea con l’impostazione della Recovery and Resilience Facility.

Non è questa la sede per entrare nei numerosi dettagli tecnici delle diverse modifiche fatte al “Quadro Temporaneo”. Alcuni mesi fa, la Commissione ha presentato un documento complessivo di cui poco si parla ma che è oggetto, se non ancora di trattativa, di discussione con i rappresentanti dei 27 Stati membri.

Il problema di fondo è chiedersi se dopo l’ultima (per ora) ondata di Covid, che ha comportato una nuova ondata di aiuti di Stato (spesso in deficit), si può ragionevolmente pensare al ritorno del regime precedente (basato essenzialmente sulla concorrenza) o occorre pensare ad andare verso una razionalizzazione degli aiuti di Stato per andare sulla strada di una politica industriale europea. Ci si deve chiedere che spazio c’è per politiche industriali “nazionali” nell’Ue?

Come accennato, la “dottrina prevalente” nell’Ue è che lo sviluppo industriale deve essere garantito dalla libera concorrenza, dalla mancanza di aiuti di Stato e di posizioni dominanti tra i player. Da decenni, la Francia – Patria di Colbert – propone una “politica industriale europea” che, nel rispetto delle regole sulla concorrenza, incoraggi campioni europei tali da superare i confini nazionali e da gareggiare efficacemente con gigantesche multinazionali di impronta americana e asiatica. Due importanti documenti in tal senso, il Rapport Beffa del 2005 ed il Rapport Gallois del 2012, tracciano prospettive e includono proposte concrete in materia.

Hanno avuto relativamente poca attenzione in Italia e non sono stati formalmente recepiti in sede Ue, ma sono la cornice intellettuale e di politica economica in cui è nata, ad esempio, Stellantis, un chiaro elemento per far sì che il comparto europeo dell’auto possa rispondere efficacemente alla sfida della trasformazione tecnologica e del mercato mondiale. La Francia – vale la pena ricordare – ha anche creato “campioni europei”, ma con un forte accento “nazionale”, acquisendo aziende un tempo italiane, soprattutto nel comparto del lusso. Ciò dovrebbe essere un monito per l’Italia, dove non ci sono state acquisizioni significative di aziende straniere da incorporare in aziende italiane e fare così nascere “campioni europei” con il profumo ed il gusto italiano.

Alcuni anni fa, Franco Debenedetti, che è stato alla guida di grandi aziende, oltre che politico e saggista, ha analizzato gli insuccessi della politica industriale italiana in un volume dal titolo eloquente “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale” (Marsilio, 2016). Quasi cinquanta anni fa, Giuliano Amato, che non può certo essere tacciato di iper-liberismo alla Hayek, nel volume “Il governo dell’industria in Italia”, (Il Mulino, 1972), caratterizzava l’intervento pubblico nell’industria nel nostro Paese quale impiccione e pasticcione.

Si potrebbe continuare con citazioni e riferimenti. La domanda di fondo è come mai Oltralpe si riesce a teorizzare i campioni europei, e anche a facilitarne la realizzazione, mentre da noi si finisce ad attuare interventi impiccioni e pasticcioni alla origine dei circa 160 tavoli di crisi in quel di via Molise, dove ha sede il ministero per lo Sviluppo Economico (Mise)?

La risposta è in gran misura in Colbert e in Napoleone Bonaparte che ne seguì le tracce e diede un inquadramento più completo alla strategia. In una Francia dove l’industrializzazione tardava a venire, Napoleone creò les grandes écoles perché lo Stato disponesse di un corpo altamente qualificato per valutare e guidare l’attuazione di interventi piccoli e grandi. La tecnocrazia prodotta da les grandes écoles era fedele alla Nation e non cambiava funzione e ruoli a seconda del vento politico del momento. Ancora oggi, La Documentation Française, pubblicata dall’equivalente del Poligrafico dello Stato, diffonde le analisi perché tutti possano giudicarne la qualità.

In effetti, quando la crisi del 1929 comportò un forte intervento pubblico per salvare la finanza e l’industria italiana, Benito Mussolini non si rivolse a un camerata di stretta osservanza e fedeltà, ma a un socialista riformista, che non aveva mai preso la tessera del Partito, come Alberto Beneduce, per porre ordine al sistema.

Da solo, tuttavia, questo elemento non basta. In primo luogo, al capitale intellettuale di cui dotare il settore pubblico, occorre affiancare un capitale fisico di infrastrutture (dalla logistica alle forme più avanzate di telematica) per fare sì che le imprese “nazionali” possano competere efficacemente con quelle straniere ed irrobustirsi sul piano interno e poi diventare “campioni europei”: gli storici dell’economia sottolineano che sia l’età giolittiana sia quella del miracolo economico furono caratterizzate da un grande sviluppo delle infrastrutture (finanziate in gran misura dallo Stato). In secondo luogo, è imperativo un diritto pubblico dell’economia semplice, trasparente e stabile – altra caratteristica e dell’età giolittiana e dei lustri del miracolo economico, mentre purtroppo in questi anni l’Italia è stata travagliata da un diritto pubblico dell’economia confuso e spesso cangiante (si vedano, ad esempio, i casi dell’impianto siderurgico di Taranto e delle concessioni autostradali).

Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza dovrebbe migliorare il parco infrastrutturale, tuttavia, occorre soprattutto che gli imprenditori italiani ritrovino il coraggio d’investire e la grinta che avevano in età giolittiana e negli anni del “miracolo economico”,

A questo punto ci si deve chiedere se una politica industriale “nazionale” con la prospettiva di dare vita a “campioni europei” può prevedere interventi finanziari diretti a sostegno di alcune imprese. Un’analisi interessante si ha in un saggio di Ernest Liu, un giovane professore dell’Università di Princeton (Industrial Policies in Production Networks in The Quarterly Journal of Economics Novembre 2019). Liu ha studiato con cura le politiche industriali del Giappone, della Corea del Sud, di Taiwan ed anche della Repubblica Popolare Cinese. Giunge ad una conclusione utile: l’intervento pubblico diretto per la politica industriale può essere efficace quando mira a settori o industrie “a monte” che producono input per settori o industrie “a valle”.

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