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Italiani preoccupati dai prezzi, non dalle beghe per il Colle

Per gli italiani la maggiore preoccupazione, oggi, non è il Quirinale, ma l’aumento dei prezzi che sta cominciando a scardinare l’economia spicciola delle famiglie

Se chiedete all’italiano medio quale sia il problema che oggi lo preoccupa di più difficilmente emergeranno le tematiche quirinalizie e gli intrighi di palazzo, quanto piuttosto l’aumento dei prezzi che sta cominciando a scardinare l’economia spicciola delle famiglie.

Da quasi vent’anni (un beneficio dell’euro che qualche euroscettico spesso è portato a dimenticare) la nostra economia viveva con prezzi sostanzialmente stabili e con un potere d’acquisito dell’euro che si manteneva più o meno costante.

Il cambiamento dei prezzi sta portando a situazioni complicate e solo chi ha i capelli grigi ricorda come si reagisce e ci si cerca di muovere in uno stato di inflazione come quello che – dagli ’70 all’euro – ha attanagliato il Paese obbligando i governi ad adottare tutta una serie di meccanismi obbligati di adeguamenti e scale mobili che speravamo dimenticati per sempre.

La nuova fase “calda” sta già intanto mettendo in evidenza le solite criticità e furbizie cui chi visse le inflazioni precedenti e si è subito allineato e “coperto”, mentre chi la subisce per la prima volta appare perplesso e più lento di riflessi.

Basta vedere il menu di un ristorante: quando arrivano i prezzi scritti a matita o con un pudico adesivo bianco a correggere i prezzi precedenti ecco un pessimo segno. Idem la sparizione dei “prezzi fissi” pubblicizzati nelle vetrine o il ritiro dei manifesti pubblicitari di una nota catena di supermercati alimentari dove quelli rossi e blu a dicembre declamavano: “Aumentano i prezzi? Noi li abbassiamo! ” che sono stati ritirati per un più pudico “Confronta i nostri prezzi!”.

Temo che la fiammata di aumenti non sarà comunque una parentesi veloce anche perché l’aumento dei prezzi è già in atto da diversi mesi e gli effetti – anche fosse risolta domani la questione energetica – perdureranno nel tempo, ingigantendosi da criticità di fondo che vanno ben al di là delle motivazioni iniziali. In queste settimane è stato sicuramente l’aumento del prezzo dell’energia a fare da detonatore, ma a ben guardare la concausa è stata proprio la pandemia che ha bloccato il mondo nel 2020 ed ha poi visto una ripresa incerta, dove i nodi dei trasporti hanno svolto un ruolo essenziale nell’aumento dei costi, anche prima dell’aumento del gas.

Oltre un anno fa in un mondo molto politicamente distratto, improvvisamente si è scoperto che la Cina controllava nella pratica molto più che nella teoria diverse materie prime fondamentali per produrre semi-conduttori, ma anche terre tare, materie prime, navi da trasporto, i movimenti dei container ecc. Tutte situazioni sottovalutate per anni ma che per l’Occidente si sono trasformate in un cappio che fatalmente ha fatto lievitare i costi al primo accenno di ripresa post-covid.

In una serie di onde telluriche generate dai prezzi di materie prime e trasporti – fondamentali in un mondo globalizzato (e che non lo era trenta anni fa!) – si corre a propria volta ad aumentare i propri prezzi con un effetto valanga ancora prima di subirne gli effetti con il turnover dei propri acquisti, in una micidiale corsa preventiva che si scarica appunto sui prezzi al consumo, almeno per chi può permettersi di farlo viste per le sue posizioni di mercato.

Nel frattempo sono venute meno per evidenti vetustà d’uso quei meccanismi legislativi di aggiornamento automatico (per esempio dei salari e delle pensioni) che permettevano di creare una rete di ammortamenti sociali per rendere mento traumatico l’impatto dei prezzi su famiglie ed imprese. Meccanismi che peraltro a loro volta creavano inflazione in una spirale potenzialmente inarrestabile.
L’aumento dei prezzi è un serpente strisciante, un virus che non si vede subito ma che quando diventa endemico è a volte mortale.

Oggi il grosso dei consumatori percepisce per esempio prima l’aumento della benzina alla pompa (con il cartello bene in vista al distributore che cresce ogni settimana) rispetto ai beni in vendita al supermercato, soprattutto se sono camuffati in mille modi (la pasta venduta a libbra e non a mezzo chilo: c’è scritto, ma il pacco sembra lo stesso) o la bevanda che non è più di 330 cl ma di 250. Queste scelte distributive creano nel tempo l’aspetto più grave perché irreversibile: forse la benzina potrà calare, ma i brezzi al banco non caleranno più.

L’aumento dei prezzi si alimenta da sé perché ed è concausa di speculazione, una corsa che è molto difficile interrompere almeno finché non c’è un surplus di mercato o di produzione (sempre più improbabile nel mondo di oggi) che torni a far crescere il valore di acquisto. E’ ancora presto per dirlo, ma chi ricorda i manifesti color violetto affissi sui muri con quel “difendi la tua spesa, telefona al governo” con i quali lo Stato negli anni ’80 invitava i cittadini a telefonare direttamente a quelli che erano i primi “numeri verdi” governativi per segnalare anonimamente i nomi dei commercianti speculatori o che ignoravano i prezzi fissi del “paniere” si renderà conto che stiamo nuovamente avvitandoci da soli.

Intanto, una buona prassi sarebbe una temporanea sterilizzazione dei prezzi energetici per una fascia di consumi minimi “sociali” per sostenere il reddito fisso. Sorpresa: tanti anni dopo, nonostante gli annunci inopportuni di chi è apparso al balcone di Palazzo Chigi annunciando “Abbiamo vinto la povertà”, non solo i poveri ci sono ancora ma, anzi, sono drammaticamente aumentati e con l’inflazione fatalmente saranno sempre di più.



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