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Colle, perché al Paese servono sette anni

Di Francesco Bonini

Perché il Paese ha bisogno del settennato Quirinale? La presidenza a tempo ha una sua logica? E come mai i leader di partito non arrivano all’ultimo miglio? Pubblichiamo un estratto del saggio “Il settennato presidenziale. Percorsi trasnazionali e Italia repubblicana” (Il Mulino) a firma del professor Francesco Bonini, rettore dell’Università Lumsa

Egidio Tosato, relatore sul tema nella seconda sottocommissione della Commissione dei 75 alla Costituente, conia una formula icastica: «per il funzionamento del governo parlamentare occorre che il Capo dello Stato non sia né troppo debole né troppo forte». A precisa indicazione di rotta, cosicché, tra l’esperienza costituente francese verso quella che sarà la Quarta Repubblica e l’esperienza di Weimar, si traccia una linea ulteriore, che fa chiaro rifermento alla Terza Repubblica francese, più precisamente alla sua originale formulazione. (…). Egidio Tosato era ben consapevole del contesto sistemico. Nella sua relazione aveva sottolineato l’impegno ad attuare l’ordine del giorno Perassi, ovvero «adottare la forma di governo parlamentare, ma di adottarla con quei dispositivi costituzionali che valgano ad ovviare ai più gravi inconvenienti che essa, nella situazione data, naturalmente presenta».

Ma aveva anche ammesso che «il compito che si tratta di assolvere appare oltremodo arduo. Non voglio pensare alla quadratura del circolo, ma non posso nemmeno accarezzare delle illusioni». In questo disegno di razionalizzazione un ruolo significativo era riservato anche al Presidente, sia pure in termini poco formalizzati, perché poco formalizzabili, tra cui appunto la lunga durata del mandato. Anche il giurista che al momento costituente aveva denunciato la «partitocrazia» riconosce che al vertice dello Stato la carta repubblicana colloca dunque un organo che, come sfugge almeno in parte al controllo partitocratico per il modo della sua elezione (a scrutinio segreto), così si mantiene poi fuori del sistema per la stabilità della lunga carica a termine fisso e per la personalità dell’azione, collegata alla sua molto limitata responsabilità politica verso le camere.

La Repubblica italiana ormai cataloga 13 mandati, considerando quello iniziale e anomalo di De Nicola, che in realtà durò poco meno di un biennio, come il secondo di Giorgio Napolitano, unico caso di rielezione, anche se esplicitamente ad tempus.

Mediamente assai più anziani dei presidenti francesi della Terza e della Quarta Repubblica, sono over 65 e più normalmente over 70, al momento dell’elezione, con l’unica eccezione di Francesco Cossiga. I presidenti della Repubblica italiana, come del resto quelli della Terza (ma anche della Quarta, superata l’intemperanza convenzionale iniziale) Repubblica sono accomunati. da alcune caratteristiche, le cui eccezioni confermano la regola: presentano una significativa esperienza istituzionale, in particolare come presidenti di Assemblea, o ministri e comunque un lungo cursus dal quale comunque risalta il fatto che non sono leader di partiti di primo piano e anche per questo sono eletti ad una età per cui non si configura un successivo impegno pubblico.

In 7 casi ex presidenti di Assemblea, in 9 già ministri, ma solo in due casi già presidenti del Consiglio, peraltro in compagini politicamente poco profilate, che governano in fasi di transizione politica. I «cavalli di razza», ovvero i leader di partiti di primo piano, i presidenti di Consiglio di forte spessore politico, come peraltro era stato nella Terza Repubblica, non sono candidati, o, quando lo sono, in forme esplicite o coperte, sono impallinati – a scrutinio segreto – dal fuoco amico, i cosiddetti «franchi tiratori».(…)

Sul lungo periodo delle 13 elezioni presidenziali, la scansione periodizzante, che segna la storia elettorale della Repubblica nei primi anni Novanta, non sembra rappresentare uno spartiacque particolarmente rilevante. Forse proprio per le peculiari e cangianti caratteristiche del maggioritario all’italiana, coeso alle scadenze elettorali e frammentato in Parlamento. Forgiato nel 1994 ed entrato in crisi alle elezioni del 2013, le quattro elezioni presidenziali del ventennio presentano tutte le tre differenti tipologie, già sperimentate nella fase proporzionale: elezioni unanimistiche al primo turno, elezioni maggioritarie, elezioni di largo, ma più o meno travagliato, consenso.

L’elezione di Ciampi avviene nel 1999 al primo turno, con il 71,4% dei voti. Questa modalità si era presentata solamente altre due volte, con percentuali lievemente superiori. De Nicola, ancora in Assemblea costituente, era stato eletto con il 73%, con l’esplicito dissenso solamente del gruppo dell’Uomo Qualunque, ma senza un candidato contrapposto. Cossiga, in un contesto di governo pentapartito, ma operante in un quadro di regolazione allargata del sistema politico con modalità post-consociative, nel 1985, era stato eletto con il 76%, contrari solo gli elettori del Partito radicale e di Democrazia proletaria, senza un candidato contrapposto.

De Mita aveva preso atto del veto comunista su Andreotti e sigla un accordo con Natta segretario PCI. A Ciampi, il cui nome era stato concordato tra il presidente del Consiglio D’Alema e il capo dell’opposizione Berlusconi, non votato da Rifondazione comunista, era invece stato contrapposto il candidato di bandiera della Lega Nord. La seconda modalità degli anni del maggioritario all’italiana è realizzata in occasione delle elezioni di Napolitano e Mattarella, rispettivamente nel 2006 e nel 2015: si tratta di una forma immediatamente maggioritaria, avvenuta cioè al momento della diminuzione del quorum, ovvero al quarto scrutinio, rispettivamente con il 54,8 e il 66,8% dei voti.(…) In ogni caso comunque al fine di caratterizzare la figura del presidente, in relazione alla sua maggioranza, risultano emblematiche le parole di uno dei presidenti eletti con più ampio suffragio, Giovanni Gronchi:

“Sono contento del modo in cui questa investitura è venuta, voglio dire della quasi unanimità che mi rende indipendente da ogni partito e fazione. Tolga dai 658 suffragi che mi sono piovuti addosso quelli della destra: risulto eletto ugualmente con largo margine. Ne tolga quelli delle sinistre e le conseguenze non cambiano. Ciò mi consentirà di essere il capo dello stato davvero e non il fiduciario di una parte”.

Connesso dunque ma svincolato, dotato di una force, che tuttavia si può attivare soltanto ad intermittenza, non è provvisto di una propulsione sua propria. Si pone così il problema decisivo del rapporto tra i presidenti e le maggioranze che li hanno eletti, ovvero dell’inserimento del settennato, che era stato esplicitamente pensato nel quadro del sistema politico e dei suoi tempi, come un tempo inusitatamente lungo, proprio per affermaraghie l’autonomia del presidente.

Quella che Leopoldo Elia argutamente chiama «la sicurezza della tenure» è uno degli elementi che meglio ne caratterizzano la force, en dehors del sistema politico in senso stretto.

 

Estratto dal saggio “Il settennato presidenziale. Percorsi transnazionali e Italia repubblicana” a cura di Francesco Bonini, Sandro Guerrieri, Simona Mori, Marco Olivetti – Il Mulino, Bologna 2022, pp. 209-216

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