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Il piano banale di un Parlamento in crisi

Di Francesco Sisci

Quando il sistema parlamentare è in crisi, nella storia, il Paese crolla, in un modo o in un altro; o viene abolito con rivoluzioni o colpi di Stato; oppure uno o più partiti guidano una riforma generale e si ritorna in equilibrio. L’analisi di Francesco Sisci

In una delle pagine più inquietanti e simboliche de Il Gattopardo, il celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il principe riceve un emissario piemontese che gli offre di entrare nel nuovo parlamento del regno. L’istituzione, centrale nella monarchia costituzionale, deve essere rappresentativa anche dei territori acquisiti di recente come la Sicilia.

Il principe, erede di un mondo feudale in cui si prendono e danno ordini, dove il “parlamentare”, trovare accordi, compromessi tra potentati, è al di sotto della propria dignità, si dice onorato ma rifiuta. Capisce la necessità dell’istituto, comprende la sua logica, ma non se ne sente parte e la rifiuta per sé. Lui è di una stirpe di animali da preda, leoni, gattopardi, che non parlamentano.

Ma l’affermazione delle democrazie liberali è proprio la fine del vecchio mondo feudale. I conflitti si risolvono parlamentando, appunto in parlamento, tra le persone designate come più potenti, influenti, importanti e quindi rappresentative del Paese.

La crisi, certo progressiva, delle istituzioni parlamentari italiane alla fine è proprio questo. La Camera dei deputati e il Senato non raccolgono più da tempo gli uomini e le donne più significative del Paese.

I partiti hanno smesso di guardarsi intorno nella società cercando di cooptare le personalità di maggiore spicco, ma sono diventati puri organismi burocratici, tesi al mantenimento del loro potere, o meglio del potere dei loro gruppi dirigenti.

Questi fanno carriera, come in tutte le burocrazie, in maniera ordinata e verticale – facendo sempre e solo vita di partito. Scelte di questo tipo però svuotano il parlamento di capacità sia delle migliori intelligenze di leggere il reale sia di rappresentare i poteri e le influenze presenti.

La grande dimostrazione di questa crisi è stata la scelta di Mario Draghi a presidente del Consiglio. Cioè il parlamento non sapeva come far fronte alla doppia sfida del Covid e del Pnrr e ha chiamato un “tecnico” dall’esterno. Ma Draghi – o persone come lui – doveva già essere coinvolto nel dibattito politico da tempo, doveva far parte del parlamentare e del parlamento, non esserne esterno. Questa la ferita profonda del sistema.

Il governo Ciampi, 1993-1994, era diverso perché esso rappresentava una pausa in un momento di lotta politica esasperata e fine della Guerra fredda. Eppure i partiti avevano idea di cosa fare, solo non si sentivano in grado di farlo o pensavano fosse opportuno fare un passo indietro. Ma ancora c’era una capacità di intelligere la realtà.

La scelta di Draghi invece è testimonianza di uno smarrimento molto più profondo, prova che non si vede più il mondo.

Conferma di ciò è la confusione attuale sulla scelta del presidente della Repubblica. I nomi volano come stracci, come se uno valesse l’altro, come se un ruolo equivalesse a un altro. Non si vede un piano dietro la ridda di candidature.

È vero, molte altre volte, la scelta del presidente è stata lunga e tortuosa ma perché c’era una lotta politica, giusta o sbagliata, su un piano o un altro. Oggi cosa c’è? Sembra di vedere non una battaglia tra forze politiche con idee diverse, ma tanti congressi di partiti, spaccati al loro interno che, con la scusa della scelta del candidato, cercano di vincere sui nemici interni.

A oggi le fratture paiono caotiche. Già un decennio fa, alla scadenza della presidenza di Giorgio Napolitano, i partiti si trovarono in una impasse e allungare di un biennio il suo mandato sembrò una trovata estemporanea per affrontare un evento straordinario.

Oggi la nuova candidatura di Sergio Mattarella sempre a presidente della Repubblica è invece evidenza che la crisi è istituzionale. Essa è profondissima e va al di là della scelta del presidente e pone il problema della legittimità del parlamento che non sa più scegliere e sceglie di non scegliere, di allungare l’esistente.

Al di là del grande valore di Mattarella che ha dovuto presiedere la Repubblica forse in uno dei suoi momenti più difficili, se non il più difficile, il voto per lui è sanzione finale della crisi istituzionale.

Forse sarà la scelta giusta, di stabilità, in un momento di pericolo del sistema, quando i venti di guerra in Ucraina tirano sempre più forti e contemporaneamente è calato il gelo di una seconda guerra fredda intorno al Cina.

Questi conflitti non sono esterni al Paese ma hanno fatto radice dentro l’Italia stessa e ne stanno cambiando la natura. Quindi in tale momento forse è giusto congelare l’esistente e attendere tempi migliori.

Ma congelare l’esistente, per la seconda volta, senza alcuna chiara prospettiva, significa nell’immediato che questo parlamento non riesce a governare e quindi si sciolga subito dopo il voto per il Quirinale.

Più ampiamente poi c’è una crisi profonda del parlamento in generale. Quando ciò accade, nella storia, il Paese crolla, in un modo o in un altro; o il parlamento viene abolito con rivoluzioni o colpi di Stato; oppure uno o più partiti guidano una riforma generale e si ritorna in equilibrio.

Realisticamente, il piano di questo parlamento sembra essere banale: non sciogliere le camere prima della scadenza, per non rinunciare allo stipendio, non perdere Draghi per non perdere i soldi europei, e non cambiare nulla, quindi mantenere Mattarella come collante ultimo di un equilibrio che non c’è. Forse sarà anche la scelta giusta oggi, ma apre questioni immense già all’indomani del suo voto.

Un’Italia così debole e fragile, così incerta, è preda naturale di ogni spinta distruttiva interna o esterna. Oggi l’attenzione internazionale si è fissata sull’Ucraina dove i russi potrebbero attaccare, fare una sortita e aprire uno spazio di incertezza infinito. Qui ora nessuno ha interesse all’Italia con i suoi bizantini e incomprensibili passaggi parlamentari. Ma certi nodi potrebbero venire al pettine presto, complice l’orizzonte internazionale.

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