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La Fed, il governo italiano e la svolta monetaria

La politica monetaria non è materia di governo, ma argomento su cui spesso il governo ha modo e maniera di dire la sua. L’attuale presidente del Consiglio è stato sia governatore della Banca d’Italia sia presidente della Bce. È certamente in grado di valutare quale è il mix di incremento dei tassi e di Quantitative Tightening che potrà fare meno male all’Italia

Alla vigilia delle elezioni presidenziali, il 21 gennaio, questa testata ha sollevato un tema che non credo sia stato trattato altrove: come le politiche monetarie avrebbero potuto incidere sulla scelta del Parlamento. Il dibattito elettorale non ha sfiorato la politica economica, e tanto meno la politica monetaria, ma unicamente nomi di candidati, o presunti tali, e di leader politici, che, in un modo o nell’altro, ambivano ad intestarsi la vittoria, anche se molti di loro non venivano ascoltati neanche dai propri gruppi parlamentari.

Nella confusione generale, nessun “politico” pare essersi accorto che il 26 gennaio è avvenuta, a livello mondiale, quella che il settimanale The Economist, nel fascicolo 29 gennaio-4 febbraio ha chiamato, in un lucido editoriale e in alcuni servizi, la svolta, ossia la fine di una politica della “moneta a basso costo” (ove non “a costo zero”) e il passaggio del Quantitative Easing (Q. E.) al Quantitative Tightening (Q.T.).

Il 26 gennaio, infatti, il presidente dell’autorità monetaria americana, Jerome Powell, ha annunciato un aumento dei tassi per metà marzo, e forse altri due prima della fine del 2022. Ha inoltre precisato che comincerà a mettere sul mercato parte dei 12 trilioni di dollari di titoli di stato acquistati a partire dal 2010 per rimettere in moto l’economia dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 (il Q. E.), strategia continuata con l’emergenza sanitaria. La Banca centrale europea (Bce) ha seguito la politica dell’autorità monetaria americana a partire dal luglio 2012. La svolta della Federal Reserve è innescata da un tasso di aumento dei prezzi al consumo che viaggia sul 7% l’anno.

In materia di tassi, la Bank of England è già sulla strade della Federal Reserve e il suo governatore Andrew Bailey si chiede retoricamente che senso ha acquistare titoli di stato se non ci si sbarazza di quelli già in cassaforte. Un comitato della House of Lords chiama il Q. E. “una droga pericolosa di cui si diventa dipendenti”.

Nell’unione monetaria europea – lo abbiamo ricordato il 21 gennaio – all’ultima conta, i prezzi al consumo aumentavano ad un tasso del 5% l’anno, ma all’interno del Consiglio della Bce ci sono già voci che chiedono una revisione sia dei tassi sia di misure di acquisto dei titoli di stato di cui l’Italia è stata, ed è, il principale beneficiario. Il cambiamento di rotta della Bce non credo sia immediato ma non penso neanche che possa stimarsi per un futuro remoto perché i mercati finanziari nell’area atlantica sono sufficientemente integrati che una divergenza potrebbe essere dannosa per tutti.

La politica monetaria non è materia di governo, ma argomento su cui spesso il governo ha modo e maniera di dire la sua, sia tramite la Banca d’Italia sia tramite i propri rappresentanti nella istituzioni internazionali.

Soprattutto, l’attuale presidente del Consiglio è stato sia governatore della Banca d’Italia sia presidente della Bce. Quindi, con il ministro dell’Economia e delle Finanze, è certamente in grado di valutare quale è il mix di incremento dei tassi e di Q. T. che potrà fare meno male all’Italia.

Senza dubbio, le idee velleitarie di stazionare per sempre parte del nostro debito presso la Bce – quali quelle espresse nel lavoro Transforming Sovereign Debts into Perpetuities through a European Debt Agency di Massimo Amato, Everardo Belloni, Paolo Falbo, Lucio Gobbi, un lavoro che avendo una certa eco sulla stampa – sono quanto meno fuori tempo.

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