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Gli emuli di Jep Gambardella sulla strada per il Quirinale

Di Andrea De Petris

Gli ultimi giorni che hanno portato alla settimana cruciale per l’elezione del nuovo Capo dello Stato hanno fatto tornare alla mente il protagonista del film “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino, la cui massima ambizione era quella non di partecipare alle feste (che contano), ma “di avere il potere di farle fallire”. Il commento di Andrea De Petris, direttore scientifico Cep Italia e docente Università degli Studi Internazionali (Unint)

Nelle convulse giornate che ci hanno avvicinato all’Election Day presidenziale di oggi 24 gennaio, zeppe di incontri ufficiali, abboccamenti ufficiosi, intese precarie, perentorie dichiarazioni e brusche smentite, è tornato alla mente la figura di Jep Gambardella, il protagonista del film “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino, la cui massima ambizione era quella non di partecipare alle feste (che contano), ma “di avere il potere di farle fallire”.

La sensazione, nel leggere le cronache politiche di queste ore, è che anche tra i protagonisti del confronto in corso per individuare il candidato al Colle sul quale far convergere le preferenze della maggioranza dei grandi elettori aleggi un certo qual spirito “gambardelliano”, inteso più a far naufragare i vari tentativi di accordo messi in campo per eleggere il successore del Presidente Mattarella, che non a favorire la confluenza dei voti sul fatidico nome condiviso.

La storia delle elezioni presidenziali indica come i veti incrociati tra le varie fazioni in campo, non di rado anche all’interno dello stesso partito, vi siano sempre stati: i precedenti illustri, anche recenti, sono noti. In questo senso, dunque, il percorso per l’individuazione del prossimo inquilino del Quirinale non si distanzia dalla prassi seguita nelle elezioni precedenti.

Ciò che sembra acuirsi, in realtà, è l’ermeticità con cui le trattative vengono condotte: ben poco si celebra alla luce del sole, quasi tutto avviene attraverso iniziative di cerchie ristrette riunite intorno ai propri capofila, quando non di singoli emissari incaricati di sondare terreni e disponibilità per conto dei rispettivi referenti, con gli organi di informazione costretti letteralmente a rincorrere chiunque, nei vicoli tra Montecitorio e Palazzo Madama, possa offrire loro una confidenza utile a prospettare il possibile esito del prossimo voto per il Capo dello Stato.

In questo turbinio di appuntamenti, riunioni, vertici e raduni, spiccano per la loro assenza i partiti, ovvero proprio quei soggetti che, Costituzione alla mano, dovrebbero funzionare come cinghia di trasmissione tra società civile ed istituzioni per trasformare in decisione politica il volere popolare. Quello dell’assenza dei partiti come soggetti portatori di un proprio coacervo forte di proposte ed interessi è un problema ormai endemico nell’assetto politico italiano, causato da una loro intrinseca debolezza organizzativa che i rispettivi gruppi dirigenti sembrano quanto meno gradire, ove non consapevolmente perseguire, e la ragione è facilmente comprensibile: tanto più fragili risultano gli apparati di partito, tanto più energici saranno i loro leader.

Il problema, però, è che quando poi la politica è chiamata a decidere, come nel caso dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, la solidità delle sue scelte è minata alla radice dalla debolezza dell’assetto partitico che le esprime. La dissoluzione di quel collegamento tra partiti e cittadini che i Costituenti auspicavano quando stilarono il testo dell’art. 49 della Carta, condiziona inevitabilmente la solidità e l’autorevolezza delle posizioni che essi sono chiamati ad esprimere nell’agone istituzionale, e che l’opinione pubblica tende sempre più a percepire come scelte di consorterie elitarie, persino in movimenti che proclama(va)no lo smantellamento delle congreghe interne tramite sedicenti forme informatiche di democrazia diretta, piuttosto che riconoscere tali decisioni come frutto di mediazioni condivise tra la base e i vertici dei partiti.

Appare quindi curioso il grido d’allarme che in questi giorni vanno lanciando alcuni esponenti politici rispetto alla eccessiva farraginosità della scelta e alla presunta scarsa rappresentatività popolare dei candidati presidenziali e di chi, tra loro, otterrà la maggioranza delle preferenze dei grandi elettori: un deficit di democraticità che, a detta loro, dovrebbe risolversi trasferendo direttamente agli elettori il potere di eleggere il Capo dello Stato. È un grido d’allarme curioso, perché il rimedio prospettato per una difficoltà che pure esiste, viene da coloro che di tale problema sono la maggior causa, e che – per di più – propongono di risolverlo esautorando definitivamente quegli organismi che invece essi stessi hanno contribuito a snaturare, affossandone sistematicamente le capacità organizzative e decisionali.

Il passaggio ad una cd. Repubblica semi-presidenziale, naturale conseguenza dell’innesto dell’elezione diretta del Capo dello Stato in un forma di governo parlamentare, comporta inevitabilmente un ripensamento dell’apporto dei partiti alle scelte istituzionali: in presenza di un assetto partitico solido, questa evoluzione potrebbe anche tradursi in un consolidamento complessivo della capacità decisionale delle istituzioni; in mancanza di movimenti politici dotati di una salda organizzazione interna e stabilmente radicati nella società, tuttavia, essa rischia di incentivare ulteriormente l’annoso fenomeno della personalizzazione della politica, che tanto ha contribuito al deperimento del ruolo dei partiti nella cd. Seconda Repubblica.

Chi dunque ritiene che il Presidente della Repubblica possa guadagnare in autorevolezza attraverso una sua elezione popolare diretta, ammette in ultima analisi di voler cedere all’idea di una politica vittima dei vari Jep Gambardella di turno, che sembrano tramare più per distruggere che per costruire: invece, ripensare il ruolo dei partiti, disciplinandone finalmente l’organizzazione interna per conferire loro solidità, credibilità e competenza, sarebbe un’operazione di cui beneficerebbero non solo le istituzioni nazionali, ma anche il prestigio internazionale del Paese: davvero una “Grande Bellezza” di cui l’Italia avrebbe molto bisogno, ora e negli anni a venire.


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