La richiesta di intervento da parte di Tokayev è un vero e proprio balsamo per le ambizioni imperiali di Mosca, un riconoscimento allo status di potenza tanto ambito dal Cremlino nei negoziati con la Nato. Anche se… Il commento del prof. Giovanni Savino (Accademia presidenziale russa, Mosca)
Negli ultimi mesi dell’anno appena terminato parecchia stampa dava per certo l’attacco russo all’Ucraina. Nessuno avrebbe immaginato che nella prima settimana del 2022 vi sarebbe stato un intervento sì, ma dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (Odkb), che include Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, in Kazakistan, Paese sconvolto da una sollevazione popolare che in alcune regioni ha messo a dura prova il governo locale e ha portato all’uscita ufficiale di scena di Nursultan Nazarbayev. Il 6 gennaio un primo contingente di Vdv, i parà russi, si è mosso per raggiungere il Kazakistan, assieme a militari degli altri paesi aderenti all’Odkb, con il compito di proteggere le basi militari e i punti di interesse strategico, dichiarando di intervenire come forza di peace-keeping.
Gli eventi kazaki sono una ulteriore testimonianza di come, a trent’anni dalla caduta dell’Unione Sovietica, anche in un paese spesso considerato modello di modernizzazione autoritaria, guidato da Nazarbayev dalla perestrojka fino al 2019. Ormai tre anni fa l’Elbasy, termine che significa capo della nazione, aveva avviato la transizione al vertice, lasciando l’incarico di presidente a Kasym-Jomart Tokayev, ma mantenendo per sé il ruolo di guida del Consiglio nazionale di sicurezza, revocato da Tokayev nella giornata del 5 gennaio nel tentativo di placare le proteste popolari.
Le vicende kazake hanno già avuto un primo impatto in Russia, dove la transizione guidata da Nazarbayev era vista come uno dei possibili scenari per il periodo post-putiniano, e in alcune scelte a inizio 2020, con la riforma costituzionale e il rimodellamento degli equilibri di potere, sembrava fosse il modello a cui ispirarsi.
In realtà il 2021 ha dimostrato un rafforzamento importante della fazione dei siloviki nell’eterna lotta tra le torri del Cremlino, che ha guadagnato posizioni tra repressioni di piazza, arresti, scioglimenti di organizzazioni politiche, messa al bando di media e giornalisti, e minacce d’ogni tipo. Quanto succede nelle strade di Almaty e di Aktau fornisce ai siloviki e ai loro fedelissimi propagandisti argomenti a favore di ulteriori giri di vite nella vita politica e sociale russa, spingendo per un’intensificazione delle politiche di repressione e di controllo.
Inoltre, la richiesta di intervento da parte di Tokayev è un vero e proprio balsamo per le ambizioni imperiali di Mosca, un riconoscimento allo status di potenza tanto ambito dal Cremlino, volontà espressa anche nelle bozze di documenti inviate a Washington e alla Nato lo scorso dicembre.
Un ruolo imperiale di ripristino dell’ordine, che assomiglia, più che agli interventi sovietici a Budapest e a Praga, all’invio delle truppe zariste in Ungheria nel 1849 per reprimere la rivoluzione ungherese. Anche in quel caso, l’intervento avvenne su richiesta, subito accolta da Nicola I, zar ostile a ogni tipo di movimento dal basso.
Zygmunt Bauman ha dedicato uno dei suoi ultimi lavori al concetto di retrotopia, indicando come vi sia nella società una tendenza a collocare nel passato una società migliore, spesso e volentieri del tutto immaginaria. La retrotopia imperiale, in una reinterpretazione post-moderna dell’esperienza storica dello zarismo del XIX secolo, è una delle varianti presenti nella Russia di oggi, e che da qualche anno inizia ad essere sempre più presente nella retorica e nelle posizioni del Cremlino. Una retrotopia coltivata anche in risposta alle contraddizioni crescenti dello spazio post-sovietico e però al tempo stesso in grado di esacerbarle ulteriormente. I fatti kazaki rischiano di essere una verifica sanguinosa di questa realtà.