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L’Italia salti sul treno Quint. Memo per Palazzo Chigi

Di Gabriele Checchia

Nel 2021 il nostro Paese è tornato nel formato con Usa, Francia, Germania e Regno Unito. Ora serve rendere tale coinvolgimento non reversibile. Ecco tre carte importanti di cui disponiamo. Il commento di Gabriele Checchia, già rappresentante permanente d’Italia al Consiglio atlantico e ambasciatore all’Ocse, oggi presidente del comitato strategico del Comitato atlantico italiano

Il 2021 si è chiuso per il nostro Paese con un saldo complessivamente positivo in politica estera. È risultato cui hanno certamente contribuito il prestigio e l’autorevolezza riconosciuti, a livello internazionale, tanto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella quanto al nostro presidente del Consiglio Mario Draghi. Tutti elementi che non sarebbero però forse stati, di per sé, sufficienti a farci guadagnare nel mondo quell’accresciuta credibilità che appena evocata.

Decisive sono state – in aggiunta ai due rilevanti fattori cui ho sopra accennato – le prove concrete di tale “cambio di marcia” registratesi nel corso dell’anno appena conclusosi: il ruolo centrale che sin dalla scorsa primavera (con la visita congiunta a Tripoli dei ministri degli Esteri di Italia, Francia e Germania) l’Italia ha saputo riacquisire in relazione al dossier libico, confermato dalla nostra co-presidenza della Conferenza di Parigi dello scorso novembre; la nostra impeccabile gestione della presidenza di tutti gli appuntamenti tradizionali del G20; il buon esito, tutt’altro che scontato alla vigilia, de G20 “straordinario” sull’Afghanistan dello scorso 12 ottobre caparbiamente perseguito dal presidente Draghi; l’eccellente collaborazione in essere tra il nostro Paese e gli Stati Uniti (come emerso da ultimo in occasione del bilaterale tra Draghi e il presidente Joe Biden a Palazzo Chigi lo scorso 29 novembre) anche con riferimento alla gestione delle più importanti sfide globali.

Sono soltanto alcuni esempi della ritrovata centralità del nostro Paese. A questi va certamente aggiunto, sul piano europeo e su quello del rilancio del rapporto tra Unione europea e Stati Uniti, il contributo offerto dal nostro esecutivo (a cominciare dal presidente Draghi), da un lato, al varo del massiccio pacchetto Next generation EU da declinare nei diversi Pnrr; dall’altro, con riferimento alle relazioni transatlantiche, il forte impegno italiano – assai apprezzato oltreoceano – affinché la nascente (è lecito almeno sperare) difesa europea assuma caratteri di complementarietà, e non concorrenzialità, con il prioritario vincolo atlantico.

Né può essere trascurato l’ulteriore sviluppo rappresentato dalla firma, lo scorso 26 novembre, del Trattato del Quirinale chiamato a consolidare su base strutturata, durevole e auspicabilmente più equilibrata le relazioni tra Roma e Parigi. In un momento nel quale il nostro continente ha più che mai bisogno di una solida intesa tra i principali Paesi fondatori nel segno di un’agenda, per quanto possibile, convergente.

In tale contesto, il condivisibile obiettivo del nostro governo è ora quello di coniugare a tale significativo passo avanti sul piano delle relazioni con Parigi un analogo (nella sostanza, se non nello strumento impiegato) progresso sul terreno dei nostri rapporti col “partner” tedesco. Tanto che, come noto e sulla scia della recente visita a Roma del cancelliere Olaf Scholz, negoziati sono già stati avviati tra le due capitali per pervenire in questo caso a un “piano di azione di cooperazione”, intorno a temi specifici, tra Italia e Germania.

Una chiusura, in tal modo, del “triangolo” Parigi-Roma-Berlino sarebbe naturalmente nel nostro interesse poiché ne deriverebbe, finalmente, una collaborazione strutturata tra i tre principali Paesi dell’Europa post Brexit: una soluzione per molti versi naturale nella quale l’Italia potrebbe rappresentare l’ago della bilancia anche perché, come è stato autorevolmente osservato, “probabilmente nessuno meglio di Mario Draghi conosce la forza e le criticità dell’asse franco-tedesco”.

Su tale sfondo, non può stupire che l’amministrazione Biden, che – al di là del caotico ritiro dall’Afghanistan e dalla mancata consultazione con gli alleati (Francia in primis) alla vigilia della vicenda dei sottomarini culminata nell’accordo Aukus – continua a individuare nel ritorno al multilateralismo uno dei tratti qualificanti della propria agenda, stia rivolgendo segnali di crescente attenzione al nostro Paese: quale alleato di prima fascia per la promozione dei propri obiettivi, anche sul terreno valoriale. 

Ne sono testimonianza le parole di Biden a Draghi in occasione della sua visita a Roma di fine novembre, a pochi giorni dallo svolgimento del noto Summit per la democrazia virtuale promosso dallo stesso presidente statunitense: “stai facendo un lavoro straordinario. Dobbiamo dimostrare che le democrazie possono funzionare e che possiamo produrre un nuovo modello economico. Tu ci stai riuscendo”.

Ulteriore segnale di apprezzamento di Washington nei nostri confronti è il ritorno del nostro Paese nel Quint (Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e Regno Unito), dopo un lungo periodo di assenza italiana da un gruppo certo “informale” ma non per questo meno rilevante quale cabina di regia ristretta di primari fori multilaterali. Dalla primavera a oggi due riprove in tal senso sono state offerte, da un lato, dalla partecipazione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio alle consultazioni in formato Quint, con un’agenda densa, tenutesi a margine della ministeriale Nato Esteri/ Difesa dello scorso aprile; dall’altro, dall’inclusione del nostro presidente del Consiglio nelle consultazioni telefoniche con i suoi omologhi Quint effettuate da Biden prima e dopo il suo primo vertice virtuale con il presidente russo Vladimir Putin sulla questione ucraina a inizio dicembre.

Nuove occasioni di nostro coinvolgimento ai più alti livelli nel sopra evocato formato saranno offerte nelle settimane a venire – che si annunziano dense sotto il profilo diplomatico – dall’incontro Russia-Stati Uniti sui temi della stabilità strategica e della crisi ucraina in calendario per il prossimo 10 gennaio a Ginevra così come da quello, due giorni dopo, del Consiglio Nato-Russia a Bruxelles.

L’obiettivo dovrebbe essere per noi quello di rendere tale coinvolgimento non reversibile. In aggiunta a quelle menzionate disponiamo a tal fine di altre carte importanti.

Ne citerò tre. La prima è quella della consapevolezza bipartisan in seno all’establishment americano del fatto che tra i grandi Paesi europei il nostro è al momento il solo in grado di coniugare impeccabili credenziali “atlantiste” con una visione della istituenda difesa europea tale da rassicurare Washington (e gli alleati di area centro-orientale) circa il fatto che mai quest’ultima porterà a un decoupling sul terreno della sicurezza tra le due sponde dell’Atlantico.

La seconda è rappresentata dalla perdurante buona qualità della nostra interlocuzione con la Federazione Russa (testimoniata più di recente dalle dichiarazioni al riguardo dello stesso Putin in occasione della sua conferenza stampa dello scorso 23 dicembre), nonostante le tensioni in atto tra Mosca e l’Occidente con riferimento all’Ucraina. È carta ancor più di rilievo in un fase che precede, come detto, l’avvio del difficile esercizio negoziale tra il Cremlino e la Casa Bianca sulle note “garanzie di sicurezza” richieste da Mosca alla Nato.

Il terzo nostro atout di rilievo per un’amministrazione americana (ormai prevalentemente assorbita dal confronto con Pechino nell’Indo-Pacifico, e non solo) è quello della nostra centralità geografica, e geopolitica, nello scacchiere mediterraneo. Centralità rafforzata dalle potenzialità implicite nella nostra accresciuta capacità di concertazione, anche su tale versante, con Parigi e Berlino.

Spetterà all’esecutivo Draghi – come sta di fatto avvenendo – e a quelli che dovessero, più o meno a breve, seguire giocare al meglio tali carte: sia al fine, come detto, di rendere definitivo il nostro coinvolgimento nel Quint – almeno sui temi diversi dal nucleare iraniano – sia in vista delle importanti scadenze che attendono la Nato nel corso dell’anno appena iniziato. A cominciare dalla designazione del prossimo segretario generale dell’Alleanza (con il nostro Paese che ha più di un titolo per rivendicare l’incarico): scelta relativamente alla quale la voce di Washington sarà ancora una volta decisiva.

(Nella foto, un incontro a Hannover tra i leader Quint nel 2016: da sinistra, David Cameron, Barack Obama, Angela Merkel, François Hollande e Matteo Renzi)


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