Non serve un takeover, basta anche un “contenimento”. Sull’Ucraina il Cremlino potrebbe accontentarsi di una vittoria a metà, senza attraversare il confine. Ma la scommessa con la Nato può anche diventare un boomerang. Il commento del prof. Giovanni Savino (Accademia presidenziale russa, Mosca)
Ormai è dallo scorso novembre che la minaccia di un intervento russo in Ucraina è al centro della politica internazionale ed è protagonista delle prime pagine dei quotidiani e dei siti d’informazione. Una minaccia a cui si accompagnano incontri a tutti i livelli tra i diplomatici russi, americani e europei, dichiarazioni, provocazioni e appelli.
Uno dei problemi della situazione attuale è nell’interpretazione della natura dei vari summit che viene data dalle due parti: per gli Stati Uniti e per la Nato, gli incontri di queste settimane servono a promuovere il dialogo con Mosca per evitare una escalation militare in Ucraina; per la Russia invece si tratta di colloqui volti a discutere le garanzie di sicurezza richieste dal Cremlino nei mesi scorsi. Per Washington il dialogo serve a mantenere intatta la strategia statunitense di confronto con la Cina, considerata il principale antagonista a livello globale; in tal senso, per gli Stati Uniti è necessario evitare tensioni in Europa.
Mosca però ritiene di essere tornata a essere una potenza globale, con cui bisogna fare i conti, e le rivendicazioni avanzate sulla rinuncia da parte dell’Alleanza Atlantica all’allargamento in Europa orientale e nel Caucaso, impossibili da accettare, servono a ribadire la volontà russa di riconoscimento del proprio status. Come è stato notato da Dmitri Trenin, negli ultimi otto anni la Russia è passata dall’adattarsi a una realtà spesso disagevole al tentativo di ribaltare il peggioramento della propria posizione a livello geopolitico, iniziando a dispiegare forze e risorse in vari teatri: dall’Artico al Medio Oriente, dall’Africa ai Balcani, la Russia prova a far sentire la propria presenza. Si tratta però di sforzi spesso enormi, perché deve fare i conti con la dipendenza dell’economia dal mercato di gas e petrolio, la cui stabilità può essere messa facilmente a rischio da mosse azzardate.
I Paesi europei marciano in ordine sparso, non una novità, con divisioni alquanto nette su quale approccio adottare verso la Russia nel contesto dell’attuale crisi. A dimostrarlo son state anche le dichiarazioni del viceammiraglio Kay-Achim Schoenbach, comandante della Marina tedesca, di venerdì scorso durante un evento al Manohar Parrikar Institute for Defence Studies and Analyses di New Delhi.
Il viceammiraglio, nel corso del suo intervento, ha sostenuto la necessità per l’Occidente di rivolgersi in modo rispettoso e paritario verso Putin, aggiungendo anche come la Crimea non tornerà mai all’Ucraina. Dichiarazioni di peso, subito accolte da vivaci polemiche e dalle proteste di Kiev verso Berlino, a cui sono seguite le dimissioni di Schoenbach.
Anche le rivelazioni del Foreign office britannico su un possibile piano del Cremlino per instaurare un governo filo-russo a Kiev, con a capo l’ex deputato Yevhen Murayev, sono state al centro delle polemiche, perché ritenute irrealistiche anche a causa dello scarso peso politico dell’esponente politico ucraino. Rivelazioni pubblicate dopo che Ria Novosti e il Times hanno annunciato una possibile visita della ministra degli Esteri Liz Truss a Mosca, con l’obiettivo di discutere direttamente con Lavrov.
Per il Cremlino anche un possibile fallimento del round di colloqui potrebbe essere un risultato da portare a casa, senza dover ricorrere a una successiva invasione dell’Ucraina, ma puntando a una linea di “contenimento” a parti inverse. Basterebbe, in tal senso, accrescere la presenza militare ai confini, dislocare ulteriori forze in Bielorussia, lavorare a un’intesa con la Cina per provare a insidiare la presenza americana in Estremo Oriente e nel Pacifico, e spingere ulteriormente sulle contraddizioni in Europa.
Questo spiegherebbe anche il perché Putin non risponda alle proposte lanciate da Volodymyr Zelensky di incontrarsi: oltre alla volontà di non voler riconoscere il presidente ucraino come legittimo interlocutore, il leader russo probabilmente ritiene la partita ben più vasta, perché riguarda il suo lascito nella storia patria. Dei cinque allargamenti della Nato seguiti alla fine della Guerra Fredda, ben quattro sono avvenuti nei ventitré anni dell’età putiniana: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia nel 2004; Albania e Croazia nel 2009; Montenegro nel 2017 e Macedonia nel 2020.
Un fatto che stride con l’immagine che Putin vorrebbe lasciar di sé, di leader in grado di riportare la Russia nel novero delle grandi potenze globali, difendendone interessi e sfere d’influenza, e persino fermando la Nato da ulteriori allargamenti, senza dover ricorrere a grandi operazioni belliche. D’altro canto, né gli Stati Uniti, né i paesi Nato son disposti a firmare alcun documento che limiti l’adesione all’Alleanza Atlantica, perché ne sancirebbe la fine politica. Un rebus di difficile risoluzione.