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Perché gli Emirati finiscono ancora nel mirino degli Houthi

Di Emanuele Rossi e Massimiliano Boccolini

Un altro missile contro Abu Dhabi mentre negli Emirati è in visita il presidente israeliano. Sovrapposizione di interessi locali (della guerra in Yemen) e regionali

“Nelle prime ore di lunedì, la difesa aerea degli Emirati Arabi Uniti ha intercettato e distrutto un missile balistico lanciato dal gruppo terroristico Houthi verso il Paese. L’attacco non ha provocato danni, poiché i resti del missile balistico sono caduti fuori dalle aree popolate”, così il ministero della Difesa di Abud Dhabi ha comunicato ai giornalisti un nuovo step di quella che un paio settimane sembra diventata una costante: missili che colpiscono il territorio emiratino, dallo Yemen. Per la propaganda yemenita l’attacco è stato più vasto.

I ribelli yemeniti Houthi, che dal 2014 hanno lanciato una pesante campagna militare attraverso la quale hanno conquistato ampie fette di Paese, hanno annunciato l’allargamento di questo genere di attacchi agli Emirati Arabi Uniti. Il ritmo è costante, martellante, con l’obiettivo di far diventare un luogo non sicuro il Paese del Golfo — centro di dinamiche finanziarie, commerciali, geopolitiche, simbolicamente rappresentate in questo periodo dall’Expo di Dubai.

Il fine è far perdere valore al regno già di fatto guidato dall’erede Mohammed bin Zayed. La ragione diretta riguarda il ritorno nel conflitto yemenita del coinvolgimento militare emiratino. Abu Dhabi nel 2019 si era sganciata dalla coalizione a guida saudita che sta cercando di fermare i ribelli e proteggere le istituzioni regolari, ma ultimamente, visto che Riad non sta riuscendo a contenerli e le operazioni degli Houthi erano arrivate nell’area petrolifera di Mareb, gli Emirati hanno fornito assistenza ad alcune milizie lealiste. Risultato: Mareb per ora è salva grazie agli aiuti da AbiDhabi; val la pena notare che perderla ha un’importanza fondamentale sulle sorti della guerra.

I ribelli Houthi hanno giurato vendetta e rivolto i missili con cui da anni colpiscono l’Arabia Saudita contro gli Emirati. Quei missili sono un tema cruciale per descrivere la situazione, non solo perché rappresentano l’atto fisico degli attacchi, ma perché ne sono il peso geopolitico retrostante. Le armi degli Houthi sono — se si esclude la porzione di fabbricazione americana sottratta all’esercito regolare yemenita — quasi totalmente fornite dall’Iran. I Pasdaran hanno inserito i ribelli del Nord dello Yemen nel loro network di milizie (a base ideologica, ma a spinta legata agli interessi).

Gli Houthi vengono riforniti di armi dagli iraniani perché con quelle combattono Sanaa, che rappresenta il cortile di casa Saud e partner americano (nella lotta al terrorismo). Riad e Washington sono nemiche di Teheran, quanto meno della porzione più reazionaria e corrotta dei Pasdaran, e per questo lo Yemen è da molto tempo un terreno di scontro per procura. Gli Emirati invece, oltre che per un allineamento con i sauditi, sono particolarmente interessati alle sorti del conflitto perché nella loro proiezione marittima la fascia yemenita che si affaccia su Bab El Mandab (e il Mar Rosso) è cruciale per la risalita verso l’Europa. Che un miliziano Houthi possa colpire dalla costa una porta container emiratina con un missile iraniano è chiaramente un’eventualità che Abu Dhabi non intende accettare tra i propri rischi potenziali (e invece è nei fatti).

Con l’attacco odierno gli Houthi — che in questi giorni sono stati accusati dall’Onu di altri crimini di guerra: l’arruolamento di duemila bambini-soldato — hanno voluto dare anche una dimostrazione simbolica. Il missile è stato sparato nel giorno in cui nella capitale emiratina era in visita il presidente israeliano, Isaac Herzog: un incontro storico frutto della normalizzazione delle relazioni dopo la firma, sedici mesi fa, degli Accordi di Abramo. Israele potrebbe essere un paese che rafforzerà la difesa emiratina, fornendo intelligence sui traffici di armi che rinforzano gli Houthi (e forse anche copertura aerea, finora fornita dalle batterie terra-aria americane, anche se Israele ha smentito informalmente le voci sul possibile acquisto dello scudo anti-aereo Iron Dome da parte degli Emirati).

L’ufficio di Herzog ha comunicato ai giornalisti che la visita del presidente continuerà nonostante il missile, e d’altronde non poteva andare differentemente, perché il rischio era dare forza all’obiettivo degli Houthi — screditare la sicurezza negli Emirati. L’avvicinamento a Israele rappresenta il nuovo corso più aperto e dialogante emiratino, raffigurato nell’Expo, tanto quanto lo rappresenta il tentativo di dialogo con l’Iran. Su questo, l’allineamento con Israele è utile sia per parlare con Teheran anche per conto di Gerusalemme, ma pure per tenere attivo il lato di deterrenza e azione militare su questi dossier incrociati. La base di lancio del missile è stata rapidamente distrutta da un raid aereo che ha dimostrato una prontezza operativa su cui gli emiratini potrebbero essere stati aiutati.

Secondo Mohammed al Salehi, direttore di Mareb Press, un primo fattore di interesse riguarda proprio i missili, che rappresentano l’acquisizione di capacità tecniche e tecnologiche  che permettono agli Houthi di colpire a grande distanza dallo Yemen e di poterlo fare in modo efficace. “Ora il punto è capire quanto siano realmente riproducibili queste capacità e quanto sia grande questo arsenale, perché se fosse vasto che qualcuno pensa allora potrebbero colpire ovunque nella regione e dunque diventare una minaccia ancora più ampia, mettendo a rischio qualsiasi paese dell’area”, spiega a Formiche.net.

L’area in questione è di fatto la porzione orientale del Mediterraneo Allargato, da Suez e Mar Rosso, fino al Levante e al Golfo: un’area sensibilissima e oggetto tra l’altro degli interessi di politica internazionale italiana. “La vera questione è capire se adesso che gli Houthi si dimostrano così capaci, rafforzati, la Comunità internazionale inizierà a produrre sforzi seri e concreti per fare pressioni sugli Houthi e per fermare i rifornimenti di armi dall’Iran”, aggiunge Salehi.

In questi giorni l’inviato speciale degli Stati Uniti, Tim Lenderking, ha incontrato i partner in coordinamento con l’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen durante un viaggio in cui ha toccato Riad, Abu Dhabi, Dubai, Muscat e Londra. Il comunicato stampa del dipartimento di Stato spiega che Lenderking ha concentrato i suoi impegni sulla necessità urgente di de-escalation e protezione dei civili, riunendo le parti per sostenere un processo di pace inclusivo guidato dalle Nazioni Unite, intensificando gli sforzi per migliorare la stabilità economica, e premendo per l’azione per migliorare l’accesso umanitario e affrontare la crisi del carburante.

Washington continua a sollevare la crescente preoccupazione per le carenze di fondi umanitari, dato che le organizzazioni sono costrette a tagliare l’assistenza a milioni di yemeniti — le Nazioni Unite stimano che avranno bisogno di 3,9 miliardi di dollari nel 2022 per far fronte alla crisi prodotta dalla guerra.

Per il direttore di quello che è uno dei principali media yemeniti, “il messaggio è molto chiaro: gli Houthi chiedono agli Emirati di fermare le attività in Yemen, e dunque fermare l’avanzata delle Brigate dei Giganti (la più importante milizie yemenita collegata ad abu Dhabi, che sta ottenendo successi a Marib, ndr) che li sta mettendo i difficoltà nella guerra civile”. “Però — continua Salehi spiegando la sovrapposizione dei fattori locali e quelli regionali — negli attacchi gli Houthi dimostrano di poter minacciare l’intera regione: questo dovrebbe spingere la Comunità internazionale a muoversi”.


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