Lungo la frontiera orientale ucraina si schierano oltre 100mila militari russi, manovra ripetuta anche in Bielorussia con il consenso di Minsk. Ma a quali rischi va incontro Putin? Prova a rispondere l’ambasciatore Marco Marsilli, consigliere scientifico della Fondazione Icsa, già rappresentante permanente presso il Consiglio d’Europa e direttore centrale alla Farnesina per le questioni globali e i processi G8/G20
A meno di deliberati azzardi o di improvvisi colpi di testa, ogni decisione umana è preceduta da una approfondita valutazione del binomio “costi/benefici”, finendo per essere posta in atto soltanto se la seconda voce si rivela prevalente rispetto alla prima. Questo principio di ordine generale vale (o dovrebbe valere) anche e soprattutto nelle situazioni destinate, in caso di calcolo errato, a provocare conseguenze destabilizzanti e, sul piano della gravità, addirittura incalcolabili, non già in una remota area geografica del mappamondo e bensì in uno snodo centrale del Continente europeo.
Mi riferisco, ovviamente, a quanto sta succedendo ormai da varie settimane lungo la frontiera orientale dell’Ucraina a seguito della presenza, appena aldilà del confine, di oltre 100mila militari russi, in assetto prossimo a quello da combattimento. Uno scenario analogo sta avendo luogo – in questo caso con il pieno consenso di quelle autorità – anche in territorio bielorusso, sotto la formula di “esercitazioni congiunte” che, senza eccessi di fantasia, potrebbero in realtà rappresentare parte di un futuro movimento “a tenaglia” con destinazione finale la capitale Kiev.
I motivi (o, forse più esattamente, i “pretesti”) addotti dal presidente Vladimir Putin per porre in atto questa operazione, che sino ad oggi è ancora possibile di qualificare di “muscles flexing”, sono ben noti. In estrema sintesi, l’invasione dell’Ucraina servirebbe, nelle valutazioni russe, a scongiurare una possibile adesione del Paese all’Alleanza Atlantica reclamata a viva voce dal presidente Volodymyr Zelenskyi, cavalcando l’onda lunga dell’Euromaidan del 2014. Se essa fosse attuata – questo è il timore del Cremlino – renderebbe possibile il dispiegamento di armamenti (in primis i sistemi missilistici) in grado di colpire in pochi minuti Mosca, San Pietroburgo e altri centri nevralgici del Paese, rendendo impossibile alle forze armate russe ogni forma di concreta difesa degli stessi.
Una mossa preventiva, in altri termini, destinata a ricreare fra la Federazione russa e il suo “near abroad” quel cuscinetto di sicurezza che, ai tempi del Patto di Varsavia, era assicurato dai Paesi dell’Europa centro-orientale, già comunisti e ora, nel giro di un quarto di secolo, tutti passati ad ingrossare le file del suo principale nemico, la Nato.
Ritornando alla considerazione dei costi/benefici, una valutazione condotta dall’esterno, in quanto tale non influenzata da fattori soggettivi, sembrerebbe peraltro deporre a sfavore di un’operazione militare, destinata a rivelarsi pregiudizievole soprattutto alla parte che la ponesse in essere.
Passiamo in rassegna i principali aspetti di tale convinzione. Dal lato politico ed economico, un’invasione russa sarebbe immediatamente seguita da un ulteriore accentuarsi delle sanzioni in materia commerciale e finanziaria, tali da infliggere un colpo gravissimo ad un sistema economico già oggi in cattiva salute, anche perché dipendente in larghissima misura da un’unica fonte di reddito, il settore energetico. Si pensi, fra tutti i provvedimenti attuabili, alla sospensione della Russia dal sistema bancario “Swift”, il che, una volta accompagnata dalla istituzione di una “lista nera” delle principali banche russe, comporterebbe la completa paralisi delle operazioni finanziarie internazionali di e con Mosca e l’isolamento di quest’ultima.
A fronte della evidente violazione di uno dei “principi sacri” nei rapporti fra Paesi, quello della inviolabilità dei confini, anche i Paesi meno inclini all’inasprimento dei provvedimenti sanzionatori (fra i quali la Germania e l’Italia) non potrebbero che unirsi al consenso generale
Passando all’ambito militare, appare opportuno – ritengo – distinguere fra due possibili varianti.
Un’operazione su scala minore, ad esempio la realizzazione del, da tempo prospettato, “land bridge” con la Crimea, incorporando il territorio circostante il Mare di Azov e la città portuaria di Mariupol, potrebbe essere portata a termine con relativa facilità dalle preponderanti forze russe. Essa non raggiungerebbe peraltro lo scopo politico, dal momento che a Kiev continuerebbe ad operare un governo filoeuropeo e, soprattutto, filo-Nato. Un’operazione militare di maggiore consistenza, finalizzata per l’appunto ad insediare nella capitale un regime collaborazionista “alla Janukovyc”, si rivelerebbe, viceversa, di assai più complessa realizzazione. L’esercito ucraino, “irrobustito” da consistenti forniture militari Nato e occidentali (quali missili anticarro britannici e veicoli corazzati svedesi), dalla preannunciata messa a disposizione di unità navali e aeree ad opera di Danimarca, Paesi Bassi e Francia e, non da ultimo, dal contingente di 8.500 elementi “targati USA” annunciati dalla Casa Bianca, apparirebbe in grado di opporre una resistenza effettiva agli invasori, causando loro un consistente numero di perdite. Proprio quest’ultimo fattore non mancherebbe di provocare, soprattutto nel caso del protrarsi delle ostilità, critiche via via crescenti alla decisione di Putin, tali da danneggiarne seriamente la popolarità interna. Non è improprio ricordare, a questo proposito, che la popolazione russa non nutre alcun risentimento o motivo di rivalsa verso quella ucraina, considerata, anzi, parte integrante di un’unica Patria (“Родина”).
A ben vedere, un terzo elemento appare meritevole, nel contesto in esame, di menzione, quello della “collocazione temporale” in cui verrebbe a situarsi l’ipotetico attacco russo. Da questo punto di vista, sembra innegabile riconoscere a Mosca una posizione di vantaggio, dal momento che tutti i principali Paesi europei sono, al momento, condizionati dagli sviluppi di rilevanti avvenimenti interni. Si pensi alle incognite di cambi al vertice (Germania), ad appuntamenti elettorali dall’esito incerto (Francia ed Italia) o a situazioni personali di oggettiva debolezza (Boris Johnson in Gran Bretagna). Tali circostanze potrebbero ripercuotersi negativamente sul piano delle rispettive capacità e tempestività di reazione.
Da questo punto di vista, mani relativamente più libere sembra possedere il presidente Joe Biden, impegnato sia in prima persona che per il tramite del segretario di Stato Antony Blinken, i rodati canali dell’Osce e il “formato Normandia”, a sfruttare i margini di trattativa tuttora esistenti. Oltre ovviamente a non essere, a differenza degli Alleati europei, ricattabile dal Cremlino sotto il profilo degli essenziali rifornimenti energetici, l’attuale amministrazione americana può ricavare da una politica della “voce grossa” verso Mosca importanti ricadute anche in relazione alle vitali elezioni di “mid term” di fine anno, considerata la percentuale tutt’altro che trascurabile di persone originarie dai Paesi est-europei ex comunisti chiamata alle urne. Al tempo stesso, né la Casa Bianca né gli altri tradizionali centri di potere di Washington possono trascurare il notevolissimo aggravio, in termini di costi, che sarebbe rappresentato dall’apertura di un secondo, grave fronte di “conflittualità”, il primo – non armato, siamo d’accordo, ma comunque pesantissimo in termini economici – essendo rappresentato dal contenzioso in atto con la Cina popolare.
In definitiva, alla crisi in atto – indubbiamente di una gravità senza precedenti, almeno in anni recenti, per il teatro europeo – sembrerebbe mancante un motivo veramente inoppugnabile per fare scattare, da parte russa, il fatidico “trigger”. È vero, infatti, come ribadito a Mosca a tutti i livelli e da ultimo dal documento congiunto Nato-Usa recapitato nelle scorse ore a Putin, che il buon diritto di uno Stato sovrano di scegliere le proprie alleanze è sacrosanto e in quanto tale non sottoponibile a veti di terzi. D’altro lato, occorre altresì riconoscere che l’Ucraina di oggi non appare in grado, per svariate ragioni, di soddisfare i criteri necessari per una “full membership” nella organizzazione euro-atlantica, anche una volta confermato il carattere “aperto” della stessa.
Si pensi, a titolo di esempio, alle mancate riforme verso uno stato di diritto, alla presenza di un vasto fenomeno interno di corruzione oppure alla recente adozione di provvedimenti normativi (trattamento delle minoranze linguistiche) palesemente prevaricatori delle prerogative di queste ultime. Riassumendo, un complesso di irrisolte problematiche “strutturali” che, verosimilmente, non consentirà a Kiev anche per molti anni a venire di completare la marcia di avvicinamento intrapresa verso Bruxelles.
Proprio l’assenza di particolari condizionamenti temporali potrebbe, a ben vedere, facilitare l’individuazione di nuove formule politiche di compromesso, accettabili sia a Kiev che a Mosca, liberando definitivamente il campo da retoriche (oltretutto prive di riscontri concreti) collegate ad asserite garanzie che sarebbero state fornite ai tempi della riunificazione tedesca all’allora Unione Sovietica. All’auspicabile successo di tale, occorre riconoscerlo, difficilissimo esercizio di “quadratura del cerchio”, appare essenziale la volontà di tutti i Paesi che vi saranno a vario titolo coinvolti, fuori ma anche e soprattutto dentro la Nato, di svolgere con correttezza il ruolo di “honest broker”.