La tematica selezionata per l’Expo 2015, che rilanciò Milano, era il cibo. Dopo averlo nutrito, il pianeta bisognerebbe pure dissetarlo. La proposta di Dario Quintavalle
Quando un romano come me fa il gesto, per lui abbastanza naturale, di abbeverarsi a una fontanella (il “nasone”), suscita generalmente la curiosità dei turisti. Per uno straniero è già notevole che una città metta a disposizione dei cittadini delle fontane, ma è addirittura stupefacente che l’acqua che ne esce sia potabile.
Il fatto di vivere in una città dove l’acqua è abbondante, pulita e a buon mercato, fa apparire scontato un bene che per il resto dell’umanità è preziosissimo.
Ho fatto questa osservazione nei miei 13 anni di attività nella cooperazione internazionale allo sviluppo, in 23 Paesi tra i più poveri del mondo.
A Kinshasa, dove il fiume Congo è così largo che l’altra riva si vede appena all’orizzonte, l’acqua del rubinetto è tanto inquinata che mi lavavo i denti con la birra e bevevo minerale imbottigliata in Canada (e nonostante tutto ho preso la dissenteria). A Kiev l’acqua del Dnipro, un altro fiume immenso, scende da un posto chiamato Chernobyl. Lì bevo acqua georgiana. A San Pietroburgo, dove ho studiato, l’acqua esce dal rubinetto in varie tonalità di marrone.
La domanda di acqua, dolce e pulita, è aumentata perché la popolazione del pianeta è cresciuta, e lo stesso corpo umano è fatto al 70% di acqua. Demografia e sviluppo economico richiedono, oltre a più cibo (che per essere allevato o coltivato ha bisogno di acqua), anche tecnologie water-intensive (condizionatori, lavatrici, eccetera). La produzione agroindustriale inquina i corsi d’acqua, e ne fa vettori di malattie assai più che di sostentamento. Nel frattempo, il cambiamento climatico rende le zone aride ancora più aride.
Nel 2002 è stato introdotto il concetto di “impronta idrica” che mostra il consumo di acqua dolce da parte di una comunità, o per la produzione di un bene. Il tema sembrerebbe di interesse locale, ma in realtà il commercio internazionale crea un flusso di acqua virtuale da un paese all’altro: in pratica, esportando un prodotto, esportiamo anche l’acqua che è stata necessaria a produrlo.
Dunque, il mondo ha bisogno di acqua ed è disposto a combattere per averla, al punto che è stato coniato il termine “idropolitica”, che è la geopolitica delle acque. Beninteso, conflitti per l’acqua sono sempre esistiti, sia a livello interno che internazionale. Ma il Water Conflict Chronology, un database curato dal Pacific Institute, di Oakland, California, dimostra una netta accelerazione negli ultimi anni. Si può quindi prevedere che le guerre del futuro verranno sempre più combattute per l’acqua.
Pochi sanno che in Italia esiste un Tribunale superiore delle acque pubbliche con sede in Roma, l’unica giurisdizione nazionale al mondo dedicata a dirimere i conflitti su diritti e interessi legittimi riguardanti l’acqua. Un’istituzione giudiziaria specializzata su un bene comune (al tempo stesso risorsa ambientale, fattore economico e diritto umano fondamentale) è una best practice che un Paese più consapevole delle sue risorse avrebbe da tempo valorizzato e promosso.
Nel 2019, in occasione del suo centenario, fu celebrato un convegno con giuristi, economisti ed esperti di geopolitica, e fu emesso anche un francobollo celebrativo, raffigurante un acquedotto romano, a sottolineare il legame dell’istituzione con la città di Roma, la prima ad aver mai avuto una politica delle acque pubbliche.
Molte metropoli, come Londra o New York, devono la loro grandezza a un fiume e alla vicinanza al mare. Questo vale anche per Roma: ma è solo grazie ai suoi acquedotti che essa poté superare per prima, in età augustea, il milione di abitanti, diventando la città più grande del mondo (record rimasto imbattuto per 17 secoli). Ricordiamolo a un mondo sovrappopolato: la crescente urbanizzazione è sostenuta da acquedotti e fognature, che sono la vera ossatura di una città.
Roma ha, verso questa sua eredità liquida, un rapporto di totale indifferenza: non ha un museo dell’acqua alla pari con i tanti censiti dall’Unesco nel mondo; ha ingabbiato il suo primo fiume tra due muraglioni, rendendolo estraneo alla città; e pochi la percepiscono come una città di mare, pur avendo un suo quartiere marittimo, Ostia – forse l’unico posto al mondo dove il mare è recintato (il famoso “lungomuro”). Mostra con orgoglio ai suoi turisti il Colosseo, teatro di assassinii, ma non gli acquedotti, veicolo di vita.
Il risultato del convegno del 2019 fu di proporre Roma come “Città delle acque”. L’occasione giusta potrebbe essere quella dell’Expo 2030, cui Roma si è candidata con il titolo “Persone e territori: rigenerazione urbana, inclusione e innovazione”.
La tematica selezionata per l’Expo 2015, che rilanciò Milano, era il cibo: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Ecco, forse dopo averlo nutrito, il pianeta bisognerebbe pure dissetarlo. Senza contare che non è possibile alcuna “rigenerazione urbana, inclusione e innovazione” senza pensare all’acqua.
I grandi eventi sono effimeri e costosi, e producono cattedrali nel deserto se, come avverte il Centro di studi urbani dell’Università di Torino, non si pensa, da subito, al dopo: “l’eredità di un evento diviene più importante dell’evento stesso”.
Roma potrebbe dunque ospitare, dopo l’Expo, agenzie internazionali, centri di ricerca, e magari un tribunale internazionale delle acque sul modello di quello italiano. Diventare insomma un centro nevralgico della riflessione sulla idropolitica, e un punto di riferimento del vasto mondo che ruota intorno a questo bene primario, e che si riassume nella sigla Wash (water, sanitation and hygiene). La “Città delle Acque”, appunto.
Il mondo, assai più che fame, ha sete. E poi deve lavarsi, cucinare, scaricare i suoi bisogni nel water. Tutte ovvietà per noi occidentali, ma conquiste per gran parte della razza umana. Per questo, “garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie” è il sesto dei 17 obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Soprattutto l’acqua è un inesplorato fattore del soft power che Roma ha e che potrebbe ora essere utilizzato per il suo rilancio sulla scena internazionale.