Che la riconferma del ticket Mattarella/Draghi costituisca l’ennesima e clamorosa sconfitta del nostro sistema politico, ai partiti, incapaci di vedere oltre il loro giardinetto, non sembra interessare più di tanto. E questo è forse il dato più drammatico della situazione di stallo creatasi. La bussola di Corrado Ocone
Se il fine di Matteo Salvini è quello di confondere gli avversari, la sua tattica sembra riuscire alla perfezione. E se un giorno dice sì a Silvio Berlusconi ma anche ad un piano b per il Colle, il giorno dopo si corregge e afferma che il Cavaliere resta l’unico candidato del centrodestra. Non essendo plausibile pensare che dal vertice di domani a Villa Grande fra i leader della coalizione escano significative novità, è probabile che questo gioco del tira e molla continuerà fino a lunedì 24, il giorno della prima votazione a camere riunite. Se a questo gioco a luci accese, il leader della Lega ne stia aggiungendo un altro e diverso a fari spenti, non è dato sapere. Ed anche se molti indizi portano all’altro Matteo, cioè Renzi, allo stato attuale poco o nulla si può congetturare.
Costretti a fare l’ermeneutica del detto e non l’altra (che piaceva a Leo Strauss) del non detto, non possiamo che lavorare sulle tracce. E ieri, in verità, Salvini ne ha lasciata una alquanto marcata. Fra le more, come suol dirsi, si è lasciato sfuggire (o più plausibilmente ha voluto lasciarsi sfuggire) che nel caso in cui Mario Draghi salisse al Quirinale la Lega non lascerebbe il governo. Lo avrà detto sicuramente per contraddire voci in contrario sempre più insistenti, o anche per confondere opinionisti e appunto avversari, o ancora per marcare una distanza dal Cavaliere su cui teme di appiattirsi, le parole comunque restano.
Il senso del discorso è che, dopo tutto, Draghi al Quirinale potrebbe essere una soluzione che non dispiace alla Lega. E, in verità, neanche ai Fratelli d’Italia, che però vorrebbero contestualmente quelle elezioni anticipate che un tempo voleva anche il Carroccio e oggi per tanti motivi non più. Potrebbe il Pd dire di no a questa soluzione se il centrodestra unito facesse il nome del presidente del Consiglio?
Il problema è però sempre lo stesso: convincere un Silvio Berlusconi che di convincersi non ha proprio voglia, nonostante che gli manchino un bel po’ di numeri allo stato attuale per raggiungere alla quarta votazione l’agognato quorum (ed essendo il no della sinistra al suo nome ideologico e pregiudiziale lo sfondamento in campo nemico sembra veramente improbabile). Tuttavia, una soluzione Draghi, se pure avvenisse con un accordo preventivo sulla continuazione della legislatura, sarebbe probabilmente invisa alla maggioranza dei grillini (non però a Luigi Di Maio), i quali sembrano convinti che in questo momento la soluzione preferibile è quella che i latini avrebbero definito quieta non movere.
Esiti imprevedibili, in politica, sono infatti sempre dietro l’angolo. La richiesta di fare pressioni su Mattarella per una conferma o una prorogatio (causa pandemia) da parte del gruppo al Senato è stata esplicita. E ad una soluzione del genere potrebbe essere interessato anche Enrico Letta per confermare l’alleanza coi pentastellati e anche perché convintosi forse che molte altre carte da giocare il Pd in questo parlamento non ne ha. Che la riconferma del ticket Mattarella/Draghi costituisca poi l’ennesima e clamorosa sconfitta del nostro sistema politico, ai partiti, incapaci di vedere oltre il loro giardinetto, non sembra interessare più di tanto. E questo è forse il dato più drammatico della situazione di stallo creatasi.