Siamo in una fase storica in cui l’economia prevale sulla politica e le multinazionali sui partiti. È un allineamento già visto in passato e ha determinato la storia delle elezioni per il Colle. E oggi può indicare un solo nome. Il commento di Mario Caligiuri, presidente della Società italiana di intelligence
Tutti a parlare del Presidente della Repubblica. Tanto da indurre a pensare che possa davvero fare qualcosa per rendere migliore l’Italia. L’attuale elezione è fortemente condizionata dalla durata della legislatura, che resta una priorità dei grandi elettori, poiché una buona parte di loro non ritornerà più negli emicicli.
L’occasione è però opportuna per compiere una rapida e un po’ inconsueta rassegna degli inquilini del Colle, esaminati partendo dalla premessa che la nostra è una Repubblica nata più che dalla Resistenza soprattutto da una guerra perduta e quindi inevitabilmente a sovranità limitata. E questo per rilevare le indubbie costanti che si sono manifestate in questi tre quarti di secolo.
Tanto per cominciare i primi due inquilini della suprema vetta repubblicana sono monarchici, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, che interpretano il ruolo in modo molto dignitoso, possedendo entrambi un notevole livello intellettuale: il primo giurista, che aveva ricoperto il ruolo di Presidente della Camera dal 1920 al 1924, e il secondo economista, che al momento dell’elezione è vice Presidente del consiglio.
Einaudi inoltre era stato senatore del Regno dal 1919 al 1946 e al momento dell’elezione a Presidente della Repubblica, oltre a vice premier, è contemporaneamente Ministro del bilancio e anche Governatore della Banca d’Italia, nominato dal governo Bonomi, sostenuto dagli Alleati.
Nel 1955 accade l’impensabile. Amintore Fanfani, che si ritiene il leader dello scudocrociato, punta improvvidamente sul Presidente del Senato Cesare Merzagora. Immediata è la rivolta nel partito, perchè la sinistra Dc contrappone il presidente dell’altro ramo del Parlamento, Giovanni Gronchi, che ottiene il consenso anche di comunisti e socialisti. Fanfani deve retrocedere precipitosamente, essendo costretto a sostenere il deputato pisano per evitare che la sua elezione avvenga con i voti determinanti delle sinistre.
Gronchi diventa Capo dello Stato con una larghissima maggioranza e interpreta il ruolo sostenendo le politiche neoatlantiste, che consentono una certa autonomia alle politiche del nostro Paese, specie energetiche. Nomina governi che, seppur di breve durata, pongono le premesse per il boom economico del decennio successivo. Incarica pure Tambroni come premier in quegli anni difficili.
L’atlantismo riprende vigore con l’elezione di Antonio Segni, presidente del consiglio negli anni Cinquanta, che vanifica l’ambizione alla rielezione coltivata da Gronchi e sostenuta da Enrico Mattei. Di Segni, Francesco Cossiga ricordava quando aveva armato i giovani democristiani nel 1948 per resistere a eventuali colpi di mano dei comunisti. L’inquilino del Colle è molto prudente verso l’apertura ai socialisti e si confronta costantemente con le alte cariche dello Stato, tra cui il generale Giovanni De Lorenzo.
Interrotto prematuramente il mandato di Segni, ascende al Colle Giuseppe Saragat, che nel 1947 si era distaccato dal Partito Socialista fondando il Psli poi diventato Psdi, utilizzando i finanziamenti dei sindacati statunitensi. Nei primi anni Sessanta contrasta Felice Ippolito, segretario generale del comitato del nucleare, in un momento in cui l’Italia vienevconsiderata la terza nazione del mondo nell’uso civile dell’energia nucleare. Secondo alcuni fu un’occasione sprecata che ha indebolito il nostro Paese.
Dopo Saragat, la Dc rivendica la massima carica dello Stato ma lo scudocrociato si impelaga in contese senza fine. Alla vigilia di Natale, stremati, i parlamentari eleggono Giovanni Leone, più volte Presidente della Camera e Presidente del consiglio e già senatore a vita. La sua fu una presidenza molto travagliata, costellata dalle stragi di Piazza della Loggia e dell’Italicus e dall’assassinio di Aldo Moro. Si dimette anticipatamente dopo una campagna diffamatoria senza precedenti che vede in prima fila Camilla Cederna, mentre prima Oriana Fallaci e poi Piero Chiara difenderanno l’onorabilità del presidente, al quale anche Pannella tanti anni dopo avrebbe chiesto scusa.
Scomparso Moro ed essendosi concluso anticipatamente il mandato, la situazione è molto complessa, tanto che si verifica un secondo ingorgo istituzionale. Al sedicesimo scrutinio la soluzione viene individuata nell’ottanduenne socialista Sandro Pertini, negli anni precedenti apprezzato presidente della Camera.
La volta successiva non si perde tempo. Viene eletto al primo scrutinio il presidente del Senato in carica Cossiga, che era stato due volte presidente del consiglio e in tale veste determinante per avviare le procedure relative all’installazione dei missili Cruise, che favorirono, secondo alcuni, l’inizio della fine dell’impero sovietico. Da ministro dell’interno, si era assunto tutte le responsabilità dell’assassinio di Moro, consentendo al governo di proseguire la sua azione nel momento più tragico della Repubblica. Inascoltato per la richiesta di riforme dopo la caduta del muro di Berlino, si dimette anticipatamente.
Saranno le bombe di Capaci a fare salire sul Colle dopo sedici scrutini il Presidente della Camera in carica Oscar Luigi Scalfaro, probabilmente il meno rimpianto dei Capi dello Stato. Per la sua funzione precedente di Ministro dell’interno, viene chiamato in causa per i fondi neri del Sisde che lui liquida in diretta televisiva con il celebre “non ci sto”.
Visto il precedente, la scelta del nuovo presidente avviene al primo scrutinio, inaugurando nel 1999 la tendenza arrivata fino ad oggi di eleggere come Capo dello Stato un non eletto nel Parlamento. Carlo Azeglio Ciampi era Governatore della Banca d’Italia, carica allora a vita che lascia per diventare presidente del Consiglio ed essere determinante, anche successivamente come Ministro, per l’entrata dell’Italia nell’euro, con tutti i significati e le conseguenze annessi. La nuova moneta entra in vigore proprio durante il suo settennato, nel 2002.
Gli succede Giorgio Napolitano, già presidente della Camera e senatore a vita, caratteristiche simili a quelle di Leone. Due volte europarlamentare, è stato finora l’unico ex comunista a conquistare la massima carica repubblicana. Henry Kissinger sembra lo avesse definito “il mio comunista preferito”, tanto che era in possesso del nulla osta per visitare gli Stati Uniti durante la guerra fredda. Favorisce l’intervento italiano in Libia, inizialmente avversato dal governo Berlusconi. Nomina Mario Monti senatore a vita appena prima di incaricarlo della formazione di un governo di austerità, in linea con le indicazioni europee.
A Napolitano si fa nuovamente ricorso nel 2013, perchè i partiti non riescono a trovare nessun’altra soluzione, rieleggendolo al Colle per altri due anni con un’amplissima maggioranza.
L’ultimo inquilino del Quirinale è Sergio Mattarella, vice Presidente del consiglio alla fine degli anni Novanta e dal 2011 Giudice della Corte Costituzionale. Da Ministro della difesa aveva deciso di acquistare gli aerei F 35. Si è distinto per equilibrio, apprezzatissimo nei sondaggi da parte degli italiani.
Esaminiamo le costanti finora registrate. I dodici inquilini del Colle sono stati tutti scelti tra Presidenti dei rami del Parlamento [De Nicola, Gronchi, Leone (anche Presidente del consiglio), Pertini, Cossiga (anche Presidente del consiglio), Scalfaro, Napolitano]; Presidenti del consiglio [Segni e Ciampi]; e vice Presidenti del consiglio [Einaudi, Saragat (anche Presidente dell’Assemblea costituente) e Mattarella].
Un’altra costante è che dal 1999, e quindi da 23 anni, l’inquilino del Quirinale viene scelto tra non eletti al Parlamento [Ciampi, Napolitano (senatore a vita), Mattarella]. Un ulteriore elemento è offerto dalla circostanza che, negli ingorghi istituzionali, la scelta ricade su un membro del Parlamento che ha ricoperto il ruolo di Presidente della Camera (Leone, Pertini e Scalfaro).
Infine, i rapporti con il mondo finanziario e le politiche militari degli alleati potrebbero avere più volte pesato negli esiti quirinalizi.
In tale quadro, una riflessione di particolare attualità riguarda la Banca d’Italia, dalla quale provengono due Presidenti della Repubblica (Einaudi e Ciampi) e tre Presidenti del consiglio individuati in fasi politiche particolarmente delicate (Dini, Ciampi e Draghi). Fulminante fu la riflessione di Altan: “La Banca d’Italia è rispettatissima.
Sarà davvero italiana?”.
Mentre nel dopoguerra la scelta di Einaudi ha avuto una funzione di legare un paese sconfitto dalla guerra al mondo finanziario internazionale, quella di Ciampi è stata di garante dell’euro.
Alla luce di queste riflessioni, vediamo il profilo di Mario Draghi, che in queste ore è tra i candidati più accreditati.
Draghi è Presidente del consiglio in carica ed è stato Governatore della Banca d’Italia, due requisiti ricorrenti tra gli inquilini del Colle. Addottorato negli Stati Uniti al Massachusetts Institute of Technology, è stato, tra l’altro, dal 1993 al 2001 Presidente del comitato per le privatizzazioni italiane, dal 2002 al 2005 vice chairman della Goldman Sachs International, dal 2006 al 2011 Presidente del Forum per la stabilità finanziaria (organismo che monitora il sistema finanziario mondiale) e dal 2011 al 2019 Presidente della Banca Centrale Europea.
Lo scenario in cui si svolgono queste elezioni è caratterizzato nelle società occidentali dall’economia che prevale sulla politica e le multinazionali sui partiti, confermando che i rappresentanti delle istituzioni pubbliche sono espressione dei poteri più forti nei rispettivi momenti storici.
Lo aveva anticipato Ulrich Beck fin dal 1989: “Solo una parte delle competenze decisionali che strutturano la società è sottoposta ai principi della democrazia parlamentare. Le istituzioni politiche diventano amministratrici di uno sviluppo che non hanno pianificato né sono in grado di strutturare, ma che nondimeno devono in qualche modo giustificare. La politica non è più l’unico luogo, e nemmeno quello centrale, dove si decide il futuro della società”.
Il sistema politico è assai fragile ed è reso credibile prevalentemente dal sistema mediatico. Forse per questo il ruolo di Presidente della Repubblica si è trasformato nell’ultima trincea. Se le analisi che precedono descrivono le dinamiche in atto e tranne qualche sempre possibile colpo di coda della partitocrazia, il più probabile eletto al Colle potrebbe essere Draghi.
Questa considerazione, in definitiva, non è né politica, né moralistica, né storica ma realistica. Appunto per questo, l’inchino della politica all’economia è probabilmente il destino delle democrazie occidentali del XXI secolo. Fino a quando riusciranno a sopravvivere.