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Ucraina, Putin sterzerà. Prima di schiantarsi

Solo chi non ha osservato da vicino Vladimir Putin si sorprende delle sue manovre al confine con l’Ucraina. L’accerchiamento militare e il pressing contro la Nato rientrano in un piano di lungo periodo. Che può funzionare, o finire male. Il commento di Paolo Alli, già presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato

Pur nella sua oggettiva gravità, la situazione attuale in Ucraina si potrebbe definire con la frase “nulla di nuovo sotto il sole”.

Vladimir Putin ci ha abituato ad azioni di forza al di fuori dei propri confini quando i problemi interni del suo Paese lo mettono in difficoltà, a dimostrazione di come la politica internazionale non si possa comprendere a fondo se non alla luce delle dinamiche interne dei vari Paesi. Ad ogni discesa del suo indice di popolarità, il presidente russo reagisce mostrando i muscoli al di fuori dei propri confini, per riacquistare credito da parte dei propri cittadini, facendo leva sull’orgoglio nazionalista del proprio popolo.

Accadde nel 2008 con l’occupazione di due province della Georgia, l’Abkhazia e il Sud Ossezia, tuttora sotto il controllo militare russo. Successivamente, in reazione agli eventi di piazza Maidan a Kiev, nel 2014 Mosca si annesse la Crimea dopo un  referendum-farsa e iniziò a sostenere i ribelli antigovernativi nel Donbas, la regione orientale dell’Ucraina.

Nel 2017 il fenomeno si ripeté con l’invio di truppe in Siria e, in seguito, con l’espansione del proprio protagonismo militare nel Mediterraneo, fino alla Libia. E non si possono dimenticare i cosiddetti “conflitti congelati” della Transnistria e del Nagorno-Karabakh, che, in misura e con modalità diverse, Putin spegne e riaccende a proprio piacimento.

In questo momento la sua leadership interna è messa a dura prova dal perdurare della crisi economica e da una disastrosa gestione della pandemia, oltre alle sempre più evidenti violazioni delle libertà di espressione, come nel caso di Alexsej Navalny. Avevo ipotizzato che la prossima azione di Putin potesse riguardare la Transnistria, soprattutto dopo che le elezioni in Moldova avevano sancito la vittoria della europeista Maia Sandu, ma evidentemente il crollo verticale di popolarità ha fatto preferire al presidente russo un bersaglio nettamente più grosso e visibile.

Ammassando una grande quantità di truppe ai confini con l’Ucraina, egli ha nuovamente rialzato le tensioni con la Nato, al punto che le possibilità di una guerra appaiono, dopo il 2014, nuovamente reali. Per giustificare l’uso della minaccia militare e, soprattutto, per allontanare il rischio, per lui inaccettabile, di una adesione dell’Ucraina alla Nato, Putin rispolvera l’antica narrativa dell’espansione a est della Alleanza Atlantica. Una narrativa che trova illustri seguaci anche in Occidente, dove di petro-rubli ne sono circolati molti. Italia inclusa.

L’atteggiamento muscolare di Mosca e le sue irricevibili richieste alla Nato fanno parte di una liturgia che ha caratterizzato a lungo la guerra fredda, ma che oggi, in un mondo multipolare, appare sinceramente anacronistica. L’unica considerazione che la giustifica è che la Russia, gigante dai piedi d’argilla, può continuare a ricoprire un ruolo globale solo agitando l’arma, evidentemente a doppio taglio, della chiusura delle forniture energetiche all’Occidente e con la sottaciuta, ma reale, minaccia costituita dalle 7000 testate nucleari di cui dispone. Altre carte da giocare Putin non ne ha, tranne le incursioni informatiche dei suoi hacker nei sistemi di sicurezza dei Paesi rivali.

Difficile pronosticare fino a che punto Putin tirerà la corda: personalmente ritengo che un conflitto aperto non si verificherà. In fondo, una situazione analoga si verificò già nel 2014 con l’aggravante, a quel tempo, di una Nato che aveva ridotto sensibilmente la propria capacità di deterrenza e di una Ucraina militarmente debolissima. Ricordo che a quell’epoca in casa Nato si pensava che Mosca potesse prendere Kiev in pochi giorni, ma ciò non accadde.

Probabilmente, la vera mira di Mosca è una sorta di trade-off che comporti l’annessione alla Russia di una parte, più o meno grande, dell’Ucraina, a fare da cuscinetto nei confronti di una adesione di Kiev alla Alleanza Atlantica che, prima o poi, è destinata a verificarsi.

È, tuttavia, assai probabile che l’inevitabile gioco delle parti si risolva, alla fine, in un nuovo nulla di fatto. Del resto, pur nell’apparente dialogo tra sordi che ha finora contraddistinto le trattative tra Nato e Russia, nelle ultime ore si sono udite, sia dai vertici dell’Alleanza, sia da parte ucraina, dichiarazioni che fanno pensare a un prossimo detensioning.

Tuttavia le guerre sono brutti animali, perché quando si superano i limiti della ragionevolezza le situazioni possono precipitare. E se lo zar Putin dovesse crollare ulteriormente nel consenso interno, non si potrebbe escludere da parte sua il gesto estremo del ricorso ad un conflitto armato che potrebbe avere conseguenze devastanti.

Da ultimo, nel grande risiko della geopolitica attuale dove tutto è rigorosamente interconnesso, non si può non tener conto dei recenti fatti del Kazakhstan. Al di là dei giudizi su quanto sta accadendo in quel Paese, non v’è dubbio che un impegno militare russo nell’area costituirebbe un ulteriore gravoso impegno per Mosca, in termini sia economici, sia militari e ciò potrebbe contribuire a rendere difficilmente sostenibile la prosecuzione della minaccia ai confini ucraini.

Staremo a vedere, certo quello del Donbass non può essere considerato un conflitto congelato, dato che la sua temperatura non si è mai abbassata fin da quando ebbi l’occasione di visitare personalmente il fronte oltre Mariupol in un anno, il 2015, che sembra un lontano ricordo ma che dista da oggi poco più di un lustro.

Del resto, la velocità dei cambiamenti è, purtroppo, inversamente proporzionale alla nostra capacità di memoria.

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