La Russia chiede alla Nato di tornare al 1997, ma non è disposta a fare altrettanto. Putin vuole sfiancare l’Europa con un lungo, interminabile stallo. Ma c’è una via d’uscita. L’analisi di Nona Mikhelidze (Iai)
Sarà guerra? La minaccia è reale. Per Vladimir Putin è prima di tutto un metodo: minacciare una guerra per ottenere un risultato politico. Lo ha fatto un anno fa per ottenere il summit con Joe Biden a Ginevra e il riconoscimento dello status di attore globale. Oggi l’escalation militare intorno all’Ucraina ha un obiettivo chiaro: ridefinire l’architettura della sicurezza europea.
Qualcosa però è sfuggito di mano a Mosca: una serie di errori di calcolo. Il primo: non prevedere la reazione degli Stati Uniti. L’amministrazione Biden ha deciso di giocare usando le carte russe. Grazie a un’information war preventiva, Washington ha rilasciato dettagli di intelligence bruciando ogni passo dei russi e offrendo un debunking delle loro informazioni. La Russia si è così trovata inaspettatamente sulla difensiva. In poche parole, Biden ha tolto a Putin le redini della partita.
Così si spiega la campagna di propaganda russa sulla minaccia dell’Occidente e una presunta, imminente adesione dell’Ucraina alla Nato. Ma c’è un altro motivo, non meno valido. Le esercitazioni militari russe in corso da mesi costano molto. Troppo, per un Paese con l’inflazione all’8% che arranca di fronte alla pandemia. E infatti l’insofferenza tra i russi inizia a crescere: perché il Cremlino cerca una guerra che sarà lunga e sicuramente sanguinosa?
Putin ora deve salvare la faccia. La lettera inviata dal Cremlino alla Casa Bianca contiene richieste talmente improbabili da dare l’impressione che anche i mittenti non ci credano davvero. Lavrov e i suoi chiedono rassicurazioni per iscritto: vogliono che Ucraina e Georgia si impegnino a non entrare mai nella Nato e che si torni alle condizioni del 1997. Peccato che quello chiesto da Mosca è un ritorno unilaterale, che riguarda solo la Nato. La Russia non è infatti disposta a ritirare le sue truppe dalla Crimea, dall’Abkhazia, dall’Ossezia del Sud, dalla Transnistria. Non smetterà di finanziare i separatisti nell’Est Europa. Per di più, se le richieste non fossero accettate, minaccia “misure tecnico-militari”. Un ultimatum: o giocate alle nostre regole, o guerra sia.
È bene dunque risolvere subito un equivoco diffuso e togliere un’espressione dal nostro vocabolario. Questa non è una “crisi ucraina”, è una crisi tra Russia e Occidente. Putin non considera l’Ucraina uno Stato, ma un territorio dove può esercitare e dare sfoggio della pressione militare russa per ottenere in cambio concessioni dalla Nato.
Se questo era il piano originale anche di questa escalation, qualcosa è andato storto. Le aspettative del presidente russo sono infatti da rivedere a ribasso. Un’invasione su larga scala rimane improbabile: costa troppo anche e soprattutto per Mosca. Più probabile il riconoscimento delle repubbliche autoproclamate di Donetsk e Luhansk. E insieme un mantenimento semipermanente delle truppe intorno all’Ucraina, con una continua escalation – de-escalation che può minare gravemente la stabilità economica e politica ucraina e a lungo andare lo stesso governo di Volodymyr Zelensky.
Un limbo pericoloso, che costringe Europa e Stati Uniti a fare una scelta chiara: applicare una serie di sanzioni preventive. Stupiscono i dubbi mostrati dal presidente del Consiglio italiano Mario Draghi in conferenza stampa rispetto a questa ipotesi, peraltro finora mai presa in considerazione. Nel 2014 quelle stesse sanzioni riuscirono a salvare Mariupol e a fermare la voragine della guerra. Oggi potrebbero essere altrettanto efficaci.